La ricerca scientifica, ruolo insostituibile per la gestione faunistico venatoria

Ho sempre visto positivamente chi a qualsiasi titolo produce lavori scientifici, frutto di grandi sacrifici economici e di tempo, dedizione per la ricerca e grande passione per gli animali. Sempre felice nel vedere che finalmente da qualche anno anche una parte del mondo venatorio ha iniziato a produrre importanti lavori scientifici su specie di interesse venatorio e dove purtroppo per queste specie si riscontrano sempre più immotivate restrizioni non riscontrabili nel resto d’Europa. Ma l’Europa non dovrebbe essere uguale per tutti? Se in Italia si applicassero integralmente e totalmente la Direttiva Uccelli, Habitat, etc. come in tutta Europa, credo che le associazioni animaliste e ambientaliste si strapperebbero i capelli, si potrebbe fare l’elenco di quello che è sancito, permesso e praticato in altri Stati membri in ottemperanza a tali direttive.

Vorrei mettere sul piatto della bilancia le centinaia di pubblicazioni ornitologiche nazionali e non solo, in pratica tutta la bibliografia esistente in materia: come libri, manuali, guide, enciclopedie, testi vari, lavori scientifici pubblicati su atti di convegni o su riviste scientifiche ornitologiche, etc. a partire dai primi del novecento fino ad arrivare ai giorni nostri. In pratica se non erro tutte riportano pressoché una fenologia migratoria per esempio del tordo bottaccio che va da febbraio ad aprile con appunto febbraio inizio migrazione primaverile/risalita/ripasso/prenuziale (termini usati secondo il tipo di pubblicazione, il periodo, gli autori, etc.), picco di migrazione a marzo e coda ad aprile, questo in buona sostanza. Del resto questo è riportato anche nella recente pubblicazione " Spina F. & Volponi S., 2008 - Atlante della Migrazione degli Uccelli in Italia. 2. Passeriformi. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) - (Tipografia SCR-Roma), a pagina 229 è presente una tabella colorata dove è riportato l’intero ciclo biologico: il periodo di svernamento colore viola che va dalla seconda decade di dicembre fino alle prima decade di febbraio; il periodo di migrazione primaverile colore giallo che va dalla seconda decade di febbraio alla seconda decade di maggio; il periodo di nidificazione colore verde che va  dalla terza decade di maggio alla seconda decade di agosto; il periodo di migrazione autunnale colore rosso che va dalla terza decade di agosto alla prima decade di dicembre. Inoltre ho voluto prendere a caso tra le decine e decine di pubblicazioni che ho in casa, una pubblicazione di Spina-Brichetti-Cagnolaro meno recente della prima: Uccelli d’Italia (anno 1986) edita da Giunti, dove all’interno della bella prefazione a firma degli autori, cita testualmente “E’  per questo che, nonostante la ricca pubblicistica già esistente in campo ornitologico si è voluto realizzare col presente volume un’opera di grande impegno, moderna, puntuale nell’informazione e completa per quanto concerne l’ornitofauna italiana”. Citando poi all’interno della stessa, testualmente per il tordo bottaccio: “è di passo soprattutto in ottobre e marzo”. Noi non possiamo che essere d’accordo.

Una volta i vecchi cacciatori consigliavano di restare a casa il mese di gennaio, lo definivano il mese “morto” perché praticamente non c’era nulla, era tutto fermo, poi a caccia si ritornava a febbraio e marzo. Infatti   gennaio è il mese che si cacciano alcune specie ed in certi luoghi solo in concomitanza di grande freddo, altrimenti come dicevano………purgaaaaa. Quindi movimenti di tanti uccelli dovuti solo alle avverse condizioni meteorologiche, movimenti dovuti alla ricerca di fonti trofiche.

Sono dell’idea che la ricerca scientifica dovrebbe essere prioritaria per il mondo venatorio, ma tant’è che il nostro mondo o comunque ancora buona parte, è ancora lontano anni luce da capirne l’effettiva importanza e quindi che TUTTI si adoperino affinché sia il punto di forza.

L’ attività venatoria oggi non può più essere esercitata senza che il prelievo di qualsiasi specie non sia inserito in un concetto generale di conservazione e di protezione. Prelievo praticabile solo sulla base di precisi elementi conoscitivi dello status e della dinamica delle popolazioni, non solo a livello locale ma più in generale a livello globale della popolazione stessa. L’attività venatoria è ammessa laddove persistono ed interagiscono i concetti di salvaguardia, di mantenimento, di riqualificazione e di miglioramento degli ambienti naturali, in sinergia con dei precisi studi e ricerche scientifiche che saranno poi la base per determinare dei precisi piani di prelievo, prelievi che incideranno solo sul surplus della popolazione animale interessata. La natura offre risorse rinnovabili e queste risorse sono i frutti da raccogliere senza mai intaccare l’albero. L’attività venatoria non può esistere senza la sinergia della ricerca e del mondo scientifico, da qualunque parti arrivi.

Fin da bambino sono rimasto affascinato dalla natura e dal mondo degli uccelli, accompagnato da una passione irrefrenabile per la caccia. Questo ha fatto sì che da autodidatta mi sia avvicinato all’ornitologia e finanche a disegnare gli uccelli che osservavo nell’ambiente naturale. La passione ha preso il sopravvento nello studiarli ed acquisire sempre più dati in modo sistematico e con metodologia scientifica. La passione per la caccia agli uccelli migratori, studiarne le dinamiche in relazione alle stagioni, alle condizioni climatiche, ai venti, alle fasi lunari, etc. mi ha permesso di acquisire dati nel corso di tanti anni per poi essere anche elaborati. Ecco che tutto questo mi ha portato anche alla presentazione di due poster al XVI Convegno Italiano di Ornitologia, 22-25 settembre 2011 Cervia (RA), un lavoro sull’allodola ed uno preliminare sul tordo bottaccio, questo poi ultimato anche con i punti di ascolto notturni che purtroppo non avevo potuto inserire a Cervia per necessità di battute come poster, e comunque poi ampliato fino al 2014 in una più completa pubblicazione sulla rivista scientifica UDI - Gli Uccelli d’Italia, rivista della SOI – Società Ornitologica Italiana. Per queste specie sono forse tra i lavori più a lungo termine e per questo forse i più attendibili (26 anni per l’allodola e 14 anni per il tordo bottaccio), tra l’altro credo l’unico lavoro sul tordo bottaccio con la tecnica dei punti fissi d’ascolto nelle ore notturne.

Lavori che potranno essere utili per una maggiore conoscenza di queste specie e forse utili anche per la stesura dei calendari venatori.

L’allodola Alauda arvensis: status e fenologia post riproduttiva in un’area campione del centro Italia (1985-2010). Poster presentato al XVI Convegno Italiano di Ornitologia, 22-25 settembre 2011 Cervia (RA). De Vita S. e Biondi M.

Il tordo bottaccio Turdus philomelos a Castel Fusano – RNSLR - (Roma) status e fenologia (periodo: 2000-2011). Poster presentato al XVI Convegno Italiano di Ornitologia, 22-25 settembre 2011 Cervia (RA). De Vita S. e Biondi M.

L’allodola Alauda arvensis: Migrazione post riproduttiva un’area campione del centro Italia (1985-2010). U.D.I. XXXVIII: 82-84 (2013) - De Vita S. e Biondi M.

Il tordo bottaccio Turdus philomelos a Castel Fusano – RNSLR - (Roma) status e fenologia (periodo: 2000-2014). U.D.I. XXXIX: 51-57 (2014) - De Vita S. e Biondi M.

Purtroppo abbiamo appreso in questi giorni del divieto imposto dal Ministro Galletti relativo all’accorciamento del periodo di caccia per alcune specie.  Ho 56 anni e non mi ricordo, ma potrei ovviamente sbagliare, che in materia di inquinamento, discariche abusive, fumi tossici, scarichi fognari in mare, dissesto idrogeologico e tanto altro in materia di danni ambientali con ricadute devastanti fino alla perdita di vite umane, si siano invocati i poteri sostitutivi dello Stato per poter obbligare quelle Amministrazioni a sanare alcune disastrose situazioni appunto pericolose per l’incolumità pubblica. Eppure per 10 giorni di caccia questo è stato fatto. 

Il Caso Nutria: un caso tutto italiano – un problema e una risorsa

Dopo aver letto di tutto e di più sul problema della Nutria e degli alloctoni in genere, in particolare dopo le ultime modifiche della Legge 157/92, infatti il Governo italiano emana un D.L. il n.91 del 24 giugno 2014 che diventa attuativo con l’uscita in Gazzetta Ufficiale n.192 del 20 agosto 2014 – Supplemento Ordinario n. 72, della legge 11 agosto 2014, n.116, quindi vigenti le modifiche apportate dal decreto legge 24 giugno 2014, n. 91 alla legge nazionale 157/92.

Una delle modifiche riguarda proprio lo status giuridico della Nutria che viene esclusa dalle specie non cacciabili, ovvero protette ed equiparate alle Talpe, Arvicole, Ratti e Topi.

Art. 2. Oggetto della tutela.
2. Le norme della presente legge non si applicano alle talpe, ai ratti, ai topi propriamente detti, alle nutrie e alle arvicole.

Voglio tornare un pochino indietro nel tempo quando la Nutria era specie non cacciabile, ovvero protetta, in quanto specie faunistica presente con popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale libertà nel territorio nazionale, quindi le popolazioni di Nutria naturalizzate sono di fatto considerate fauna selvatica italiana. In definitiva l’appartenenza alla fauna selvatica implicava anche per la Nutria di sottostare alle norme di protezione e gestione stabilite dalla già citata L. 157/92. Come tutti sappiamo questa legge consente il controllo di specie animali selvatiche qualora queste si rendano responsabili di danni, in questo caso entra in campo l’articolo 19 che regolamenta il controllo della fauna selvatica ed ovviamente il tutto recepito dalle leggi regionali di riferimento.

Molto interessante e forse non seguita abbastanza una pubblicazione scientifica del 2001: R. Cocchi e F. Riga – Linee Guida per il controllo della Nutria (Myocastor coypus). Quaderni di Conservazione della Natura – Ministero Ambiente e della Tutela del Territorio ed Istituto Nazionale della Fauna Selvatica INFS.

Nel paragrafo sullo Status Giuridico della Nutria della sopra citata pubblicazione si legge in grassetto “L’origine esotica e le possibili interferenze ecologiche che la Nutria può indurre a carico delle biocenosi autoctone, nonché i problemi di natura economica che la sua presenza comporta, fanno ritenere la specie indesiderabile sul territorio nazionale”. Specificando nel dettaglio in altro paragrafo l’Impatto Ambientale: Impatto sulle biocenosi; Danni alle coltivazioni; Danni ad infrastrutture; Potenziale problema sanitario.

È ovvio che non sono state seguite le indicazioni riportate in questa importante guida vecchia di ben 13 anni ma sempre attuale dove tra l’altro in un passaggio relativo allo smaltimento delle carcasse indica pure e cito testuali parole: “il nostro Paese è interessato da importazione di nutrie selvatiche per la produzione di pellicce, parrebbe opportuno ed utile verificare la possibilità che gli animali provenienti da azioni di controllo numerico trovino una collocazione sul mercato (industria conciaria)”. Come dire: la Nutria da un problema verso una risorsa.

Ed ora dopo ben 13 anni persi tra poche ed efficaci azioni di controllo, incertezze, errori gestionali, ricorsi degli animalisti, etc. etc. ecco l’importante novità con l’esclusione della nutria dalla tutela della 157/92.

Cosa succede ora? In primis questo ha fatto sì che i danni agricoli prodotti dalla nutria non sono più risarcibili dalle Amministrazioni competenti, del resto se i topi si mangiano i prodotti cerealicoli di un agricoltore questo non è tenuto al risarcimento economico dei danni avuti. Inoltre succede che chiunque ed in qualsiasi momento può abbattere una nutria come abbatte un qualsiasi topolino delle case, un qualsiasi topolino di campagna, un qualsiasi ratto, una qualsiasi talpa, solo per citare le specie più rappresentative oggetto dell’interesse (si fa per dire) di tanti semplici cittadini che a vario titolo comprano in negozi di ferramenta, nelle agricole, in supermercati, etc. veleno per topi, veleno per talpe, trappole per topi e ratti, queste di varia forma ed efficacia.

Una riflessione: Perché mai in decenni e decenni di persecuzione contro topi, ratti e talpe mai un animalista si è sognato di fare ricorsi per esempio contro le campagne di derattizzazione, oppure ricorsi contro i talpicidi? Sono misteri del tutto incomprensibili e sarei curioso che un animalista me lo spiegasse.

Voglio anche aggiungere che la legge attuale non vieta ad un semplice possessore di porto d’arma uso caccia che durante l’esercizio della regolare attività venatoria si trovasse ad incontrare un ratto o una talpa e da lì ad esplodere un colpo diretto all’abbattimento di questa o queste specie. Per la nutria prima dell’importante modifica se un cacciatore erroneamente o volutamente abbatteva una di questa specie incorreva in una sanzione penale, ora è come se abbattesse un ratto. E’ chiaro che l’uso del fucile da caccia può essere utilizzato solo ed esclusivamente nell’ambito della regolare stagione venatoria. Fuori di questo arco temporale la nutria può essere abbattuta/catturata con esche avvelenate e trappole come un comunissimo ratto, topolino o talpa.

Quale è uno dei grossi problemi relativi a questo attuale status giuridico della nutria? Il problema del fai da te, dell’improvvisazione e della non conoscenza naturalistica, un esempio per tutti: l’uso indiscriminato dei veleni, in particolare delle granaglie avvelenate già in uso per ratti e topi che se non opportunamente mascherati e protetti diventano esche non selettive e causano decessi a molte specie animali (mammiferi e uccelli) e quindi con grave impatto ambientale, come dire un danno sul danno. Quindi ora più di prima va posta molta attenzione.

Ritenendo anche che ormai la nutria non potrà più essere eradicata dal territorio nazionale a causa delle potenzialità demografiche della specie correlata all’elevata capacità portante di alcuni bacini idrografici italiani e dall’intensa e fitta rete di corsi d’acqua piccoli, medi e grandi fittamente collegati. Il tutto inserito in un contesto climatico ottimale per la specie.

Quale potrebbe essere il ruolo del cacciatore in questo contesto? Cacciatore inteso come persona in possesso di regolare porto d’armi uso caccia, quanti di questi possono impiegare il proprio tempo libero, magari proprio quelle persone che hanno perso il lavoro, oppure chi il lavoro non lo ha mai trovato. Gli ATC/cacciatori possono organizzare e dare un servizio a chi ne fa richiesta (per il contenimento dei danni in agricoltura o per il problema dei danni causati alle arginature dei canali, etc.). Quindi essere chiamati dalle Amministrazioni e remunerati economicamente per questo servizio, inoltre come del resto effettuato nei paesi americani e non solo, dove la nutria da un problema che era è diventato una risorsa: in un organizzato sistema della filiera la nutria catturata/abbattuta entra nel mercato della carne per industrie mangimistiche e nell’industria conciaria. Quindi come esistono le ditte di derattizzazioni che operano su chiamata da parte di privati ed Amministrazioni, potrebbe nascere un nuovo mestiere: il Trapper di nutrie che in possesso di regolare licenza di caccia durante la stagione venatoria può utilizzare il fucile ma anche le trappole ammesse dalla legislazione vigente, ed in periodo fuori la stagione venatoria gli altri mezzi di cattura/abbattimento concessi. E la nutria da un problema diventa una risorsa. 

Richiami vivi: la fauna selvatica allevata in cattività, cambia la genetica?

Stefano De Vita appassionato ornitologo e di ricerca sul campo. Ha avuto esperienze di allevamento in ambiente captivo di moltissime specie di uccelli autoctoni, esotici e domestici. Insieme alla moglie è stato titolare di un allevamento di fauna selvatica per scopi di ripopolamento e reintroduzione. Ha effettuato studi e ricerche sul comportamento degli uccelli allevati e riprodotti, sviluppando  tecniche di alimentazione naturale e metodologie di allevamento estensivo in ambiente captivo naturalizzato. Ha curato progetti di reintroduzione e progettato strutture di allevamento, riproduzione ed ambientamento per la fauna selvatica dai fasianidi agli acquatici, fino a strutture per centri recupero con particolare riferimento ai rapaci. Ha collaborato con centri recupero come esperto nella riabilitazione di uccelli incidentati per poi essere rilasciati in natura.
E’ stato titolare e gestore  di esercizi commerciali del settore pet (animali da compagnia) e responsabile di associazioni di allevatori e ornitofili.

Dopo aver letto su un sito web venatorio il documento a firma delle cinque AAVV – FIDC – LIBERACACCIA – ARCICACCIA – ENALCACCIA – ANUU,  datato il 5 giugno 2014, in merito alla Procedura d’Infrazione 2014/2006 – Caccia, cattura di uccelli da utilizzare come richiami vivi – Direttiva Uccelli 2009/147/CE – Vs. riferimento Atto di costituzione in mora SG – Greffe (20144) – D/24C4 del 21/02/2014.

Mi sono soffermato su un passaggio che ritengo un po’ “bizzarro e curioso”, faccio riferimento alle Osservazioni ed in particolare alla lettera c)  riportando testualmente una parte: <<…….mai l’allevamento in cattività il cui prodotto, quale sia la specie, come è ormai dato acquisito per tutta la selvaggina, non può essere mai uguale, per caratteristiche genetiche, ai soggetti nati e cresciuti allo stato naturale. Non senza ignorare la difficoltà di reperire ambiti territoriali idonei all’impianto per la riproduzione in cattività di specie così eterogenee con ulteriori aggravi in termini economici. Risulta dunque fuor di luogo il voler equiparare la “cattura” degli uccelli selvatici con l’ ”allevamento” in cattività di soggetti che non sono selvatici>>.

Tralascio l’intero documento e la parte sulla difficoltà di reperire ambiti idonei all’impianto per la riproduzione in cattività di specie così eterogenee.

Mi soffermo più su l’altro aspetto, forse i firmatari e/o gli autori del testo in questione forse non sono a conoscenza che in tutto il mondo, compresa l’Italia, esistono una moltitudine di progetti di allevamento e riproduzione in cattività di specie selvatiche anche rare ed a rischio di estinzione, allevamenti atti a conservare e mantenere inalterato il patrimonio genetico di questi animali proprio per finalità di ripopolamento o reintroduzione ai fini della conservazione della specie, che anche se allevata in cattività non subisce alcuna modifica o alterazione genetica. Queste strutture rappresentano delle vere e proprie banche genetiche.

Tutto ciò per mammiferi come alcune specie di felini, oppure il panda gigante, ma anche alcune antilopi o altre specie di ungulati, per non parlare di tante specie di pappagalli, e che dire di una moltitudine di specie di rapaci (avvoltoi, aquile, falconi, gufi, etc.), i corvi imperiali, l’ibis eremita, la cicogna bianca, il pollo sultano, il gobbo rugginoso, il lupo, etc. etc. etc..

Altro esempio i rapaci che in tutto il mondo, ed anche in Italia, vengono allevati e riprodotti in cattività per essere utilizzati nella falconeria, quindi per esempio quelli dalle caratteristiche dell’alto volo come Pellegrini, Girfalchi, Lanari, etc. oppure il basso volo come Astori, Sparvieri, Poiana o Falco di Harris ed altri, che nati in cattività da più generazioni hanno per forza di cose mantenuto il patrimonio genetico inalterato sia nel fenotipo che nel comportamento di caccia.

Secondo quanto riportato nel documento, per analogia, tutti questi progetti sarebbero praticamente fallimentari ed inutili in quanto il prodotto, quale sia la specie, non può essere mai uguale, per caratteristiche genetiche, ai soggetti nati e cresciuti allo stato naturale. Ma ci si rende conto di tale affermazione? Forse gli autori non conoscono le varie tecniche di allevamento e riproduzione in cattività? Si seleziona per mantenere il genotipo ed il fenotipo inalterato e quindi si alleva in un certo modo, se si dovesse selezionare per arrivare alla domesticazione si alleverebbe in un altro modo.

L‘allevamento in cattività delle specie selvatiche è da sempre praticato dall’uomo, infatti quest’ultimo è stato sempre affascinato dagli animali che, come ha potuto, ha catturato e tenuto accanto a lui, infatti ha iniziato da tempi immemorabili la domesticazione di alcune specie di animali, tutt’oggi insostituibili per la vita e le attività umane. L’uomo ha iniziato con il lupo ed altri canidi selvatici oggi estinti per allevare e selezionare le innumerevoli razze canine arrivate fino ai giorni nostri. Dal coniglio selvatico abbiamo selezionato tutte le razze di coniglio da carne e quelle ornamentali. Dal piccione selvatico sono state selezionate tantissime razze tra cui il piccione viaggiatore. Dal gallo bankiva originario dell’Asia specie ancora vivente da cui derivano tutte le razze di galline domestiche oggi esistenti al mondo. Dai cinghiali ed altri suidi selvatici siamo arrivati ai maiali domestici e ancora il cavallo che è stato il mezzo di locomozione più straordinario che l’uomo abbia mai avuto. Per non parlare delle pecore, delle capre, dei buoi, di anatre, oche, dalle quali l’uomo in migliaia di anni ha selezionato innumerevoli razze. Che dire poi del canarino selvatico, anche qui da questa specie con un fenotipo ancestrale si è arrivati ad innumerevoli razze di canarini divisi in varietà come i canarini di forma e posizione, i canarini da canto ed i canarini di colore. L’uomo ha tratto vantaggio da questi animali, dai molteplici usi che ne ha fatto: per nutrirsene, per difendersi, per coprirsi dal freddo, per fare utensili, per aiuto nella caccia, per locomozione, per comunicare e per goderne la vicinanza per suo piacere estetico ed interiore.

Il processo di domesticazione di una specie selvatica avviene dopo centinaia e centinaia di generazioni di vita in ambiente captivo, ovviamente parliamo di generazioni nate in cattività.  Questo avviene ed è avvenuto per tutte quelle specie domestiche di cui sopra che derivano da progenitori selvatici, infatti  l’uomo ha catturato la specie selvatica e costringendola a vivere in ambiente controllato gli ha imposto le proprie regole cercando ovviamente di assecondare tutte le esigenze ambientali e biologiche della specie stessa, in pratica ha iniziato ad ammansire/addomesticare l’animale. Rilevante il fatto che anche nelle specie domestiche più comuni, le più manipolate dall’uomo in questo processo di domesticazione, esistono ancora alcuni  comportamenti ancestrali che migliaia di anni di selezione zootecnica non hanno cancellato. Vedi i galli e le galline di tutte le razze che la sera cercano un ricovero (il cosiddetto ‘appollaiamento’) in alto a ricordo di un luogo sicuro  per difendersi da predatori, infatti come i galli selvatici i loro corrispettivi domestici sono inetti al volo; e che dire del cane domestico, le oltre 600 razze canine che hanno nel patrimonio genetico alcuni comportamenti tipici dei canidi selvatici, come quello di sporcarsi/rotolarsi sopra le carogne per proteggersi dai parassiti, oppure quello di scavare e ricoprire (quindi nascondere da un altro predatore) un osso o altro pezzetto di cibo, anche questo rappresenta un comportamento indelebile dopo migliaia di anni di selezione a ricordo di una preda cacciata che viene nascosta per poi mangiarla successivamente.

Tralasciando gli animali domestici attuali, risultato di migliaia di anni di selezione zootecnica, veniamo ora ai richiami vivi di cattura, quindi specie selvatiche: uccelli selvatici catturati e costretti a vivere vicino agli esseri umani, ma sempre sotto l’effetto della selezione naturale,  devono considerarsi uccelli selvatici adattati alla vita domestica. Le specie selvatiche ammansite/acclimatate/addomesticate sono del tutto identiche ai conspecifici che vivono allo stato libero. Gli uccelli “addomesticati” non possono essere considerati “domestici” , anche quando riescono a riprodursi in cattività.
Forse qualcuno fa confusione con alcuni soggetti mutati, mutazioni che avvengono anche e soprattutto allo stato libero, mutazioni cromatiche del piumaggio che con dovuti accorgimenti ed accoppiamenti mirati in cattività, l’allevatore dopo alcune generazioni riesce a fissare, per es. le varie mutazioni tipo: agata, isabella, lutino, bruno, pastello, etc.. Tutto questo si può vedere anche nelle manifestazioni ornitofile ad avicole che si svolgono in Italia e nel mondo, nelle categoria mutazioni. Per capire più nel dettaglio quanto affermo consiglio di andare a visitare queste manifestazioni dove oltre ai soggetti selvatici mutati si possono ammirare anche le specie cosiddette “nostrani granivori” nella categoria ancestrali/indigeni, in particolare i fringillidi: verdoni, fringuelli, ciuffolotti, crocieri, organetti, verzellini, venturoni, cardellini, fanelli, tutti allevati e riprodotti in purezza da molti anni e che mantengono inalterate da innumerevoli generazioni le caratteristiche genetiche e fenotipiche, compreso il canto. Stessa cosa succede con molte specie cosiddette “nostrani insettivori” nella categoria ancestrali/indigeni e mutati, in particolare i tordi, i merli, i passeri solitari, i codirossoni, gli usignoli, etc..

Un aspetto importante che è influenzato dalla cattività, in particolare per gli uccelli canori, dopo alcune generazioni è la perdita di un canto formato da suoni, tonalità e melodie come quello dei soggetti che vivono allo stato naturale.  A tutto questo si può ovviare facendo ascoltare ai giovani il canto registrato di soggetti in natura.  Anche se ritengo per esperienza personale che non è certo una nota o melodia imperfetta che non attrae e quindi non stimola l’avvicinamento di un tordo all’appostamento.

Oggi si continua ad allevare tutto e sempre per gli stessi scopi citati poc’anzi, ma uno forse è più importante, anche perché è quello che serve per la continuità delle specie: allevare ai fini della conservazione. Nel mondo esistono tante specie animali allevate e riprodotte in cattività quante quasi ce ne sono in natura. Esiste un patrimonio genetico insostituibile, portato avanti anche da privati spinti dal grande amore per gli animali e con grande sforzo economico, il più delle volte non visti di buon occhio, travisati da una falsa e tendenziosa informazione portata avanti da un certo animalismo, che vuole vedere solo l’aspetto del povero uccellino in gabbia, sbandierando troppe volte il maltrattamento e l’incuria degli animali. Certo, sono consapevole che esiste qualcuno che non mantiene gli animali come si dovrebbe, ma non per questo bisogna criminalizzare una categoria ed una sana attività nel rispetto delle normative, dell’etica e del benessere animale.

E’ risaputo e supportato da infiniti lavori, studi e ricerche provenienti da Organizzazioni Conservazionistiche di tutto il mondo che nell’era distruttiva e consumistica in cui viviamo oltre alla difesa primaria degli habitat, uno dei rimedi, se non in alcuni casi il più importante, per la salvaguardia delle specie  è l’allevamento e la riproduzione in cattività delle stesse specie. In alcuni paesi questo è anche incentivato. Nello stesso tempo anche le Normative Internazionali, Comunitarie e Nazionali non lo vietano, al contrario lo prevedono e lo regolamentano:
Convenzione di Washington e successive modifiche e Leggi;
Direttiva Uccelli CEE 79/409 e recenti modifiche 2009/147/CEE concernente la Conservazione degli uccelli selvatici – art. 9;
Direttiva Habitat CEE 92/43 relativa alla Conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatica – art. 14, art. 16;
Convenzione di Berna del 19/09/1979 e resa  esecutiva con Legge 503/1981 Convenzione  relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente in Europa – art. 7 comma 3, lettera c – art. 9 comma 1 – art. 11 comma 2, lettera a;
Convenzione di Parigi del 18/10/1950 e resa esecutiva con Legge 812/1978 Convenzione internazionale per la protezione degli uccelli – art. 4, art. 9;
Legge Quadro 157/1992 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio” art. 17.
Quest’ultima Legge ha recepito integralmente le Direttive CEE e le Convenzioni Internazionali in materia di  allevamento in cattività di fauna selvatica. Ma abbiamo anche un Primo Documento Orientativo dell’allora INFS ora ISPRA Vol. 1 sulla Legge 157/92 Indicazioni per gli allevamenti di fauna selvatica indigena per fini amatoriali ed ornamentali.
Va anche ricordato che la Direttiva Uccelli CEE 79/409 e successive modifiche – nello specifico: l’art. 9 paragrafo 1 lettera c, cita; per consentire in condizioni rigidamente controllate ed in modo selettivo la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità. Questo ci conferma che questa deroga non nasce per esigenze di carattere prettamente venatorio, anzi al contrario in primis parrebbe per altri interessi quali appunto l’allevamento e riproduzione in cattività e quindi un possibile prelievo in natura per rifornire gli allevatori amatoriali. (tratto da: Raccolta delle Norme Nazionali e Internazionali per la Conservazione della Fauna e degli Habitat - di Mario Spagnesi e Liliana Zambotti – Ministero dell’Ambiente “Servizio Conservazione della Natura” e Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica INFS -  Quaderni della Conservazione della Natura n.1 – anno 2001).

Un allevamento organizzato e gestito da persona competente è una fonte di studio e  di ricerca continua, per certi aspetti difficilmente osservabile in natura: biologia ed etologia delle specie riprodotte, corteggiamento, canto, tempi riproduttivi, misure e colore delle uova, tempo di schiusa e accrescimento dei pulli, cure parentali, alimentazione e muta, nonché altri aspetti comportamentali. Chiaramente allevando con certi parametri strutturali finalizzati al benessere animale, ma così non potrebbe non essere se si vogliono raggiungere successi riproduttivi.

Le finalità dell’allevamento e della riproduzione in cattività sono anche la didattica, l’educazione ambientale e la protezione. Si possono organizzare corsi di specializzazione per allevatori, per esempio sulle tecniche di alimentazione, come costruire una voliera, come posizionarla, cassette nido e dimensioni, come posizionarle secondo i punti cardinali, il sole e l’altezza, selezionare le specie vegetali preferite per la costruzione dei nidi, le piante più idonee per naturalizzare una voliera, le piante da bacca, la loro messa a dimora, costruzione di stagni e laghetti per allevamento e riproduzione delle anatre selvatiche con particolare riferimento alla vegetazione palustre. La biologia delle specie che si intende allevare, etc. Nonché visite guidate negli allevamenti per avvicinare i giovani a conoscere meglio questa “arte” e comprendere il vero ruolo svolto dagli allevatori per il mantenimento, selezione e conservazione dell’avifauna selvatica. Da non confondere con chi cattura e commercia uccelli illegalmente, in pratica l’uccellagione e il bracconaggio.

Molti animalisti e ambientalisti pensano e sentenziano a sproposito che gli animali in cattività soffrono. Ciò non corrisponde a verità e lo riprova il fatto che in condizioni ottimali (ambiente/alloggio/alimentazione idonea alla specie), un animale psicologicamente e fisicamente sano assolve perfettamente tutte le sue funzioni biologiche e la riproduzione ne è la prova più lampante. Un individuo segue il suo istinto, ovvero i suoi comportamenti innati e si riproduce solo se è in ottimo stato psico-fisico, gli animali seguono i ritmi biologici e l’ambiente circostante che li influenzano per i tempi e i modi dell’accoppiamento. Quindi un soggetto nato in cattività è un soggetto sano sotto tutti i punti di vista e non certo un individuo stressato o maltrattato, quest’ultimo  non sarà mai in grado di riprodursi.
Visto quanto sopra esposto, ovvero che in nessun paese comunitario ed internazionale è fatto divieto di detenere ed allevare in cattività specie di uccelli appartenenti alla fauna selvatica, perché mai ci deve essere sempre qualche proclama o azione discriminatoria contro l’allevamento in cattività di specie selvatiche ? Non ci dobbiamo stupire però di questo anche perché ormai da certi fronti animalisti anche l’allevamento delle specie domestiche non è visto di buon occhio.

Di certo questo primo passo del Governo in riferimento ai richiami vivi, tranquillizza tutte quelle persone che utilizzano i richiami vivi sia selvatici che domestici, provenienti da allevamento, vedi appunto i cacciatori di colombacci, di acquatici e di turdidi, e chiude almeno per il momento lo scenario che vedeva un’azione di divieto anche contro l’utilizzo di richiami vivi provenienti da allevamento e quindi nati in cattività. Per quanto riguarda i richiami vivi di cattura sono più che convinto che si apriranno altri scenari.

A questo punto desidero chiedere al Prof. Francesco M. Angelici, zoologo di fama internazionale, conservazionista e ricercatore,  cosa ne pensa di questa affermazione: <<…….mai l’allevamento in cattività il cui prodotto, quale sia la specie, come è ormai dato acquisito per tutta la selvaggina, non può essere mai uguale, per caratteristiche genetiche, ai soggetti nati e cresciuti allo stato naturale. Non senza ignorare la difficoltà di reperire ambiti territoriali idonei all’impianto per la riproduzione in cattività di specie così eterogenee con ulteriori aggravi in termini economici. Risulta dunque fuor di luogo il voler equiparare la “cattura” degli uccelli selvatici con l’ ”allevamento” in cattività di soggetti che non sono selvatici>>.

Risposta del Prof. Angelici

“Mi sento di confermare in toto quanto affermato dall’amico Stefano De Vita, che ha toccato e sviluppato esaurientemente tutti gli aspetti del tema in questione. Naturalmente, non solo i soggetti allevati in cattività appartenenti alle varie specie, hanno le medesime caratteristiche genotipiche e fenotipiche dei soggetti presenti in natura, ma altresì possono essere più efficacemente controllati e ‘selezionati’ in senso naturale, cioè lasciando libera espressione del processo di adattamento e selezione naturale.  Prova ne è, come è stato già ricordato, che moltissime specie rare e in via di estinzione vengono attualmente allevate in cattività, in strutture attrezzate e specialistiche, per far si che il loro numero possa aumentare e per una successiva reintroduzione in libertà. Moltissime specie quasi estinte in natura, è stato possibile salvarle dall’estinzione, solo ed esclusivamente con la riproduzione ex situ. Si potrebbero fare innumerevoli esempi, ma basti pensare al bisonte europeo Bison bonasus, al condor della California Gymnogyps californianus, o al furetto dai piedi neri Mustela nigripes, o anche, per restare a noi più vicini, al cervo sardo Cervus elaphus corsicanus.
L’esito statisticamente molto positivo, di queste operazioni, dimostra senza dubbio la bontà e l’efficacia di tali azioni conservazionistiche sulla fauna. Mi sento di poter confermare, dunque, senza alcun dubbio, che nel caso di uccelli da richiamo, sia di gran lunga preferibile poter disporre di soggetti allevati in cattività, ovviamente mantenendo sempre il tipo ancestrale, ed escludendo qualsiasi possibile mutazione che si possa manifestare nello stock riproduttivo. L’unica possibilità che si può eventualmente mantenere aperta, è il possibile accesso, in caso di necessità (evento comunque assai raro in specie diffuse ed abbondanti) a qualche soggetto di cattura, se il patrimonio genetico diventasse troppo poco variabile, se, per es. i soggetti fossero troppo soggetti ad accoppiamento parentale ovvero ad inbreeding. Data però la diffusione di tali allevamenti, soprattutto all’estero,  ritengo si tratti di un’eventualità solo teorica in quanto assai remota.
Concludo con l’auspicio che vengano autorizzati e attrezzati allevamenti captivi idonei alle specie oggetto, considerando che tali strutture sono facilmente realizzabili in tutto il territorio nazionale con costi contenuti, a patto che siano seguite e controllate continuamente da personale specializzato, preventivamente formato e preparato”.
 
La stessa cosa la chiedo a Cristiano Papeschi dottore in Medicina Veterinaria e Specializzato in Tecnologia e Patologia delle specie Avicole, del Coniglio e della Selvaggina". Cosa ne pensa di questa affermazione: <<…….mai l’allevamento in cattività il cui prodotto, quale sia la specie, come è ormai dato acquisito per tutta la selvaggina, non può essere mai uguale, per caratteristiche genetiche, ai soggetti nati e cresciuti allo stato naturale. Non senza ignorare la difficoltà di reperire ambiti territoriali idonei all’impianto per la riproduzione in cattività di specie così eterogenee con ulteriori aggravi in termini economici. Risulta dunque fuor di luogo il voler equiparare la “cattura” degli uccelli selvatici con l’ ”allevamento” in cattività di soggetti che non sono selvatici>>.

Risposta del Dott. Papeschi

“Non entro nel merito del contesto dell'intero documento ma mi limito a puntualizzare un piccolo e semplice dettaglio contenuto all'interno dell'affermazione sulla quale mi è stato posto l'interrogativo. In riferimento alla seguente frase “…….mai l’allevamento in cattività il cui prodotto, quale sia la specie, come è ormai dato acquisito per tutta la selvaggina, non può essere mai uguale, per caratteristiche genetiche, ai soggetti nati e cresciuti allo stato naturale”, mi soffermo sulla questione delle caratteristiche genetiche in relazione al “prodotto”. Mi permetto di tirare in ballo il cosiddetto “Triangolo della vita di Walther”, concetto ben noto a chiunque si occupi di zootecnia. Il “prodotto”, se vogliamo definire così un animale, è il risultato di tre fattori fondamentali: la genetica, che costituirebbe idealmente la base del sopracitato triangolo, l'alimentazione e l'ambiente in forma dei lati del triangolo stesso. Se avessimo due soggetti accomunati dalla stessa base genetica, caratteristica oggettiva e dimostrabile in laboratorio con mezzi altrettanto oggettivi,  il prodotto finale, e quindi il triangolo stesso con la sua forma geometrica e la sua area, varierebbe in funzione della lunghezza degli altri due lati e dell'angolo che questi vengono a formare con la base che, come abbiamo già detto, rimane di lunghezza invariata.
L'alimentazione e l'ambiente sono quei fattori che determinano l'estrinsecarsi delle qualità genetiche di un determinato potenziale pertanto mantenendo costante una determinata base genetica la differenza sul prodotto finale sarebbe data dalle altre due variabili. In poche parole se ipoteticamente avessi due fratelli gemelli e, sempre per ipotesi, uno lo mandassi a studiare ad esempio in Francia e lo nutrissi con cibi fritti e grassi a fronte di una vita sedentaria e l'altro lo mandassi a studiare in Inghilterra e lo sottoponessi ad esercizio fisico e ad una dieta sana avrei come risultato che uno parlerebbe inglese e sarebbe magro mentre l'altro si esprimerebbe in francese e sarebbe obeso, ma la base genetica rimarrebbe comunque la stessa. 
Posso essere d'accordo che, come prodotto finale, ci sia una certa differenza tra un animale di allevamento e un animale di cattura, pur non entrando nel merito di quale sia migliore o peggiore in quanto bisognerebbe prima definire le caratteristiche dell'allevamento ed il tipo di soggetto che si intende ottenere in funzione degli scopi per i quali viene selezionato, ma le caratteristiche genetiche sono  ben altra cosa. Se io ipoteticamente, e rimango nel campo della fantasia, al momento della schiusa di una nidiata prendessi un pullo dal nido e lo allevassi in cattività mentre l'altro lo lasciassi con la madre per fargli prendere il volo e godere della vita libera e ricatturassi poi quello stesso soggetto per confrontarlo con il fratello cresciuto in ambiente confinato, avrei comunque due animali con la stessa base genetica. Affinché l'ambiente possa cambiare le caratteristiche genetiche di un organismo necessitano tempi molto lunghi, non certo riferibili alla durata della vita di un singolo soggetto. Pertanto non riesco a comprendere appieno l'affermazione di cui sopra...

IL LUPO: UN PROBLEMA IRRISOLVIBILE?
di Stefano De Vita

Voglio aprire questo articolo dicendo con forza che il “problema lupo” non è un problema del mondo venatorio. Ma un problema della collettività, e non sta ai cacciatori sanare questo.
Non passa giorno che  leggiamo di un atto di bracconaggio perpetrato sul lupo  fino a sfociare in atti macabri come è successo più volte in terra Toscana. Certo che ci viene da fare delle serie riflessioni sul perché di questo stato di cose che sembrerebbe in aumento. Voglio fare di proposito un paragone che certo sono lontani anni luce, ma coinvolgono solamente il buon senso e la vita pratica e reale di tutti i giorni: ci troviamo da anni in una crisi economica senza precedenti, migliaia di disoccupati, migliaia di precari, migliaia di persone al limite della povertà, decine di suicidi perché soffocati dai debiti e dalle tasse, migliaia di aziende che chiudono, credo che può bastare, e quale è stata la soluzione? Si sono succeduti  grandi professori, grandi tecnici, luminari della finanza ed economia, Commissioni di studio, etc. etc. Cosa è successo?  E’ sotto gli occhi di tutti e non c’è bisogno di commentare. Ma  basta che viene intervistato un comune operaio e ci da la soluzione: diminuzione drastica della spesa pubblica, sburocratizzazione, diminuzione del costo del lavoro e diminuzione della pressione fiscale, diminuzione drastica dei super stipendi e super pensioni; basterebbe questo per rimettere in moto l’intero comparto economico e ripartire la ripresa.
Sul Lupo cosa si fa? Si continua ad investire in Commissioni tecniche e scientifiche, in studi sul comportamento, dinamiche delle popolazioni, monitoraggi, tesi gestionali, etc. etc., in pratica tanta carta portata da tecnici e luminari che il più delle volte il lupo in natura forse neanche lo hanno visto mai, e poi? Quali interventi? Solo una montagna di chiacchere comprese quelle di buona parte di un mondo animalista ed ambientalista che fino ad ora non ha prodotto soluzioni. Se invece si va ad intervistare  un comunissimo contadino ed allevatore che vive da generazioni tra ambiente rurale e selvatico ti da subito la soluzione. E’ chiaro e necessario  che bisogna avere in mano dati certi e da li pianificare e programmare interventi gestionali e quindi è importante la sinergia di chi studia sui libri e di chi non studia sui libri ma vive la realtà.

Un’altra cosa che ritengo una vera favola è la certezza di quanti lupi sono presenti sul nostro territorio, di fatto chi si occupa di monitoraggi faunistici sa perfettamente che  i conteggi sono sempre sottostimati. Per monitorare e censire il lupo data la sua estrema elusività, gli ambienti forestali impervi e spesso inaccessibili in cui vive è uno dei mammiferi più difficili da censire. Tra i metodi diretti abbiamo senz’altro quello dell’ululato indotto (wolf-howling), conteggi di tracce sulla neve, e conteggi tramite telemetria e foto trappolaggio, ma anche stime tramite escrementi e/o tracce. Poi abbiamo i metodi indiretti quali comparazioni di indici di abbondanza tra zone e periodi diversi. Mi sembra talmente ovvio che in quell’aree come  montagne impervie ed inaccessibili, dove per metterci piede devi farti calare da un elicottero non puoi avere certezze e mi sembra difficile poi che  qualche luminare possa sentenziare  che li sono presenti solo due o tre lupi oppure non ci sono, etc. etc.

Entrando nel merito in riferimento alla storiella dei tantissimi cani randagi che si ibridano a lupi oppure i tanti cani  randagi rinselvatichiti vaganti in territori selvatici, evidentemente chi porta avanti questa tesi irreale lo fa per sminuire il problema lupo. Mi sembra di vederlo questo randagiotto meticcio vagare per impervie montagne e vallate alla cerca di sostentamento con prede e/o di compagni lupi con cui fare coppia e branco. Di fatto il cane randagio o rinselvatichito in un sistema naturale è solo un competitore alimentare  e  stante l’enorme presenza di lupi in determinati ambienti e luoghi se  entrano  malauguratamente nel territorio di un branco di lupi, i cani randagi o rinselvatichiti vengono subito  cacciati via o meglio diventano preda dei lupi e quindi selezionati all’istante. Al contrario i cani randagi sono soliti vagare a ridosso delle aree antropizzate/urbanizzate, in quanto qui possono sfruttare al meglio il loro comportamento da opportunista, ma fuori da questo ambiente sono solo prede.


Problema Lupo:  vorrei ricordare  che il Lupo è inserito come specie particolarmente protetta dalla Legge Quadro 157/92 e Leggi regionali di recepimento, tutelato dalle norme Comunitarie e tutelato da Leggi internazionali compresa la Convenzione di Washington. A fronte di questo attuale quadro giuridico le Amministrazioni  anche se volessero, non potrebbero materialmente operare nessun tipo di controllo sulla specie per i motivi di cui sopra, non è possibile farlo. Altro discorso sono gli interventi di controllo sugli ibridi e sui cani randagi rinselvatichiti. Però diciamo subito l’enorme difficoltà di controllare tramite abbattimento e verificare (prima dello sparo) se quel determinato canide molto somigliante fenologicamente ad un lupo, sia un ibrido od un soggetto puro, e questo è verificabile solo con un esame del DNA e quindi in questo caso prima dovrebbe essere catturato e poi eventualmente abbattuto se ibrido, se invece puro liberato.  Altro caso se invece dovessimo riconoscere all’istante da lontano che è un canide meticcio, quindi si potrebbe operare l’eventuale  abbattimento.  Ma ecco che entra un altro freno legislativo, infatti i cani meticci o loro ibridi, etc. etc. sono tutelati dalle Leggi sul benessere degli animali d’affezione e relative Convenzioni Internazionali, in Italia non è più possibile abbattere i cani o i loro ibridi, infatti si incorre in sanzioni di carattere amministrativo che penale (come per il lupo).  Quindi anche in questo caso le Amministrazioni sono impossibilitate ad effettuare dei controlli tramite abbattimenti, tutt’al più catture e ricovero presso canili, sterilizzazione dei soggetti: un costo per la collettività. 

Fatta tutta questa premessa l’unico sistema per salvare il lupo da atti di bracconaggio è pagare istantaneamente il danno diretto ed indiretto agli allevatori che subiscono, senza lunghe ed esasperanti trafile burocratiche;  attivare con incentivi tutti i sistemi dissuasivi che si conoscono, compreso i cani da pastore, di razze adatte ed in grado di tenere lontani i lupi nel panorama cinofilo ufficiale ce ne sono molte, ci sono razze che basta un soggetto per tenere a bada tre quattro lupi contemporaneamente. Questi semplici interventi sanerebbero di moltissimo il conflitto sociale che si sta vivendo, con buona pace degli ambientalisti, con la soddisfazione degli allevatori che vedrebbero risarciti e quindi tutelati dal punto di vista economico e quindi di impresa. Infine ma non per ultimo ne gioverebbe il lupo.

Però è chiaro ed indiscutibile che con il passare del tempo i lupi aumenteranno sempre più in virtù del fatto che ormai le popolazioni di  ungulati in Italia sono esplose, e come tutte le cose naturali, i predatori aumentano in relazione all’aumento delle prede, a maggior ragione della facilità di predare anche animali domestici da fattoria.
Quindi il problema del controllo diretto sia del lupo ma anche dell’ibrido o cane rinselvatichito dovrà in ogni modo essere affrontato in un prossimo futuro, volente o nolente. Ma prima vanno cambiate le leggi e la specie lupo declassata a specie non particolarmente protetta, come anche cambiate le leggi sugli animali d’affezione cui rientra a pieno titolo la specie cane randagio vagante rinselvatichito.

COME VORREI LA CACCIA IN ITALIA: UN SOGNO??
di Stefano De Vita

Ho chiesto volutamente di inserire questo mio editoriale prima dell’apertura della stagione venatoria,  come augurio per tutti perché si rinnova questo antico rito e nonostante i mille problemi che affliggono la nostra attività ed il grave periodo di crisi sociale ed economica,  siamo qui ancora a godere della nostra passione. Ma questo vuole essere anche un auspicio, un contributo, un consiglio rivolto a tutto il mondo venatorio che sembra essere sempre più diviso nonostante qualche umile tentativo di ricerca dell’unità, un consiglio nell’intraprendere una strada comune verso una effettiva difesa e riqualificazione della caccia e dei cacciatori. Un sogno?

Voglio fare una sostanziale premessa prima di toccare i vari punti che hanno interessato negli ultimi anni le varie vicende politiche, tavoli di confronto tra le componenti sociali  e discussioni varie legate alle modifiche della 157/92 ma anche sulla questione in senso generale sulla socialità e utilità della caccia, portata avanti ad arte dal politico di turno, o da quel vip, o uomo di cultura o della stampa, in pratica chi più ne ha più ne metta in un marasma di completa non conoscenza della materia venatoria, il tutto invocando un Europa da rispettare senza sapere poi come si pratica questa attività venatoria e come è regolamentata, ma aggiungo, equiparando il mondo animale e la gestione faunistica troppe volte in un surrogato di carattere disneniano.  La verità è che la gente non conosce il vero ruolo della caccia,  non è vero che la maggioranza degli italiani è contraria, lo dimostrano i numeri ed anche le affluenze nelle tante fiere, manifestazioni, etc. di carattere rurale, outdoor, sportivo, armiero, cinofilo dove in tutte c’è sempre la caccia, lo dimostrano le centinaia di migliaia di appassionati e famiglie di non cacciatori con al seguito tanti bambini. Diciamoci la verità, la caccia non è che poi interessa più di tanto la gente comune, per questi i problemi sono altri, diciamo invece che artatamente gli anticaccia sanno coinvolgere o quanto meno cercare di coinvolgere certe sensibilità avverse alla caccia, avvalendosi molto spesso di personalità come detto in premessa. Se non ricordo male anche un recente sondaggio, mi pare dell’Astra Ricerche ci confermava quello da sempre sospettato e cioè che il 55% degli italiani non è contrario alla caccia, ma la maggioranza di chi non è cacciatore non la conosce.

Ecco il ruolo che da sempre doveva aver fatto il mondo venatorio e che invece a mio avviso è rimasto al palo non investendo risorse economiche in questo: investire in informazione, cultura e riqualificazione professionale del cacciatore e dell’attività venatoria, investire nei giovani, nella didattica ambientale, creare delle vere e proprie scuole di caccia sul modello statunitense,  investire in interventi di tutela e riqualificazione ambientale ai fini dell’incremento della biodiversità anche e soprattutto acquistando terreni sempre sul modello statunitense, investire nella difesa degli habitat, investire direttamente nella ricerca e nello studio delle specie faunistiche oggetto di prelievo venatorio e non solo, la presenza di quest’ultima è il miglior indicatore biologico del nostro ambiente.
Ormai non si può più aspettare è ora che il mondo venatorio UNITO crei un unica  struttura di ricerca scientifica altamente professionale ed accreditata a livello nazionale coadiuvata da tecnici e professionisti operanti sul tutto il territorio nazionale. E’ impensabile, improduttivo e poco professionale continuare ad andare in ordine sparso.

Tra l’altro in un momento ambientale critico dove la perdita di habitat è la principale causa negativa per la sopravvivenza degli animali e quindi perdita di biodiversità, credo che sia lungimirante se il mondo venatorio inizi ad intraprendere delle vere azioni concrete in tal senso. Ma aggiungo:  per esempio i Piani faunistici venatori provinciali potranno prevedere meccanismi di coordinamento nell’utilizzazione, ai fini faunistici-ambientali, delle risorse finanziarie rese disponibili dai Programmi di Sviluppo Rurale (PSR). I beneficiari  potranno essere gli imprenditori agricoli singoli od associati, gli  Enti gestori del territorio come le Università agrarie, gli ATC, gli Istituti privati quali le Aziende Faunistiche Venatorie, le Associazioni che hanno per finalità la conservazione ed il ripristino delle zone umide, le Associazioni venatorie e le Associazioni agricole.  Dovranno essere previsti meccanismi di promozione affinché i soggetti citati che rivestano un  ruolo nella gestione dei Piani Faunistici Venatori Provinciali, ed in particolare il mondo venatorio, questi stimolino i proprietari dei terreni ricadenti nel proprio territorio nell’uso delle misure PSR in un quadro coordinato di interventi di salvaguardia, conservazione, ripristino, miglioramento e aumento delle presenze faunistiche. Quindi artefici  di progetti mirati e coerenti con le linee di gestione faunistica dettate dai piani provinciali, ed a maggior ragione incentivare ancor più quei progetti ricadenti nei territori previsti nella Rete Natura 2000. Sfruttare al massimo le risorse comunitarie, i famosi Progetti LIFE.

Forti dei nostri diritti sanciti dalle norme comunitarie, nazionali, regionali in materia di gestione e protezione del patrimonio floro-faunistico-ambientale e non in ultimo da una recente sentenza della Corte dei Diritti Umani della Corte di Strasburgo, bisogna guardare avanti ed uscire da questa situazione di stallo e lasciatemelo dire, di malgoverno della materia caccia e di questo la colpa principale è anche di noi cacciatori. C’è uno scontento generale, però poi tutto procede come prima. BASTA, ci sono delle norme che regolamentano e che ci confermano del alto valore socio-culturale-ambientale della caccia. E CHE SI LAVORI UNITI PER QUESTO.

Sentenza della CORTE dei DIRITTI UMANI di STRASBURGO – n° 9307/07 del 20/01/2011
La Corte dei Diritti Umani Europea di Strasburgo, con sentenza del 20 gennaio 2011 riconosce in maniera esplicita (chiara) il valore ambientale, economico e sociale dell' attività venatoria. L' Alta Corte ha concluso che non vi è stata nessuna violazione dei diritti dell' uomo, che le associazioni venatorie sono istituti di diritto pubblico, a cui spetta il compito di controllo dell' attività venatoria, per il mantenimento delle popolazioni faunistiche, nell' interesse generale di tutta la comunità.

Direttiva Uccelli  concernente la conservazione degli uccelli selvatici  –  2009/147/CEE

Direttiva Habitat relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche – 92/43/CEE

Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio – L. 92/157

E tutte le Leggi Regionali di recepimento

Legge quadro sulle aree protette – L. 394/91
E tutte le Leggi Regionali di recepimento

(Esercizio delle deroghe previste dall'articolo 9 della direttiva 79/ 409/CEE). Integrazioni alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, in materia di protezione della fauna selvatica e di prelievo venatorio, in attuazione dell'articolo 9 della direttiva 79/409/CEE – L. 221/2002

Modifiche alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, in materia di protezione della fauna selvatica e di prelievo venatorio - modifiche all’articolo 19 bis: Esercizio delle deroghe previste dall’articolo 9 della Direttiva Uccelli  concernente la conservazione degli uccelli selvatici  –  2009/147/CEE – L. 6 agosto 2013 n. 97. Procedura di infrazione 2006/2131.

Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2009 – L. 96/2010

Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali
di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS) – D.M. 17 ottobre 2007

Norme regionali di recepimento sui Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS).

Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche – DPR 357/97

Guida alla disciplina della caccia nell’ambito della Direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli Uccelli selvatici –
“La Direttiva riconosce pienamente la legittimità della caccia agli uccelli selvatici come forma di sfruttamento sostenibile. La caccia è un’attività in grado di generare importanti ricadute di origine sociale, culturale, economico e ambientale……”.

Accordo AWEA: Adesione della Repubblica italiana all'Accordo sulla conservazione degli uccelli acquatici migratori dell'Africa - EURASIA, fatto a L'Aja il 15 agosto 1996 – L. 66/2006

Convenzione di Parigi 1950 per la protezione degli uccelli: Parigi il 18 ottobre 1950 – L. 812/1978

Convenzione di Ramsar sulle zone umide d’importanza internazionale segnatamente come habitat degli uccelli acquatici e palustri: Ramsar il 2 febbraio 1971 – D.P.R. 448/1976

Convenzione relativa alla conservazione delle specie migratrici appartenenti alla fauna selvatica:
Bonn il 23 giugno 1979 -  L.  42/1983

Convenzione di Berna relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa:  Berna il 19 settembre 1979 –  L. 503/1981

In tutte queste norme si parla di caccia. L’ attività venatoria oggi non può più essere esercitata senza una profonda conoscenza naturalistica del cacciatore, ma anche di chi è deputato a rappresentare il mondo venatorio, come non può essere esercitata senza che il prelievo di qualsiasi specie non sia inserito in un concetto generale di conservazione e  di protezione. Prelievo praticabile solo sulla base di precisi elementi conoscitivi dello status e della dinamica delle popolazioni, non solo a livello locale ma più in generale a livello globale della popolazione stessa. L’attività venatoria è ammessa laddove persistono ed interagiscono i concetti di salvaguardia, di mantenimento, di riqualificazione e di miglioramento degli ambienti naturali, in sinergia con dei precisi studi e ricerche scientifiche che saranno poi la base per determinare dei precisi piani di prelievo, prelievi che incideranno  solo sul surplus della popolazione animale interessata. La natura offre risorse rinnovabili e queste risorse sono i frutti da raccogliere senza mai intaccare l’albero. L’attività venatoria non può esistere senza la sinergia del mondo scientifico e di questo mi riferisco a tutto il  mondo scientifico di qualunque estrazione e componente sociale.
Ma al contempo il mondo venatorio non può più essere oggetto di scambio o compromessi. Nulla va lasciato al caso ma piena operatività di quello che tutte le leggi sopra citate prevedono in tema di conservazione e gestione faunistica-venatoria.

Di fatto:

Difesa degli habitat e miglioramenti ambientali ai fini faunistici con incentivi agli agricoltori che si adopereranno in tal senso.

Creazione e ripristino ambientale in particolare delle zone umide, finalizzate anche all’attività venatoria, dove il resto dell’anno saranno luoghi per la didattica ed educazione ambientale, nonché per la ricerca scientifica.

Attivazione di Zone Cinofile, dislocate a livello capillare in tutto il territorio nazionale in modo tale che tutti i possessori delle razze da caccia possano portare i propri cani a correre (gratuitamente) nei periodi di inattività venatoria, questo nel  principio primario del benessere animale. Chiaramente incentivi a quei proprietari terrieri che mettessero a disposizione le proprie terre per queste zone cinofile senza sparo.

Creazione di vere e proprie Scuole di Caccia, in particolare rivolte ai giovani: con l’Istituzione di Corsi di formazione sul riconoscimento e biologia degli animali; Istituzione di Corsi in materia di legislazione floro-faunistico-ambientale e sul benessere animale; Istituzione di Corsi di cinofilia venatoria; Istituzione di Corsi di Balistica e sulla sicurezza e tante altre materie inerenti e collegate alla conservazione e gestione faunistica. Scuole di Caccia che  si occuperanno anche di Corsi di Qualificazione come i Corsi per il controllo degli animali opportunisti, i Corsi per conduttori cani da traccia e da limiere, Corsi per cacciatori di selezione alle specie di Ungulati e tanto altro.
Chiaramente andranno create queste “Scuole di Caccia” in tutte le regioni italiane.

Vigilanza Venatoria Volontaria, potenziamento della vigilanza venatoria volontaria finalizzata anche al controllo  ambientale.

La Ricerca Scientifica, promuovere la ricerca scientifica con progetti mirati allo studio faunistico ed ambientale, in particolare alla fenologia ed il comportamento delle specie in correlazione all’ambiente. Su tutto il territorio nazionale dotarsi di stazioni di inanellamento, di Stazioni Bioacustiche e Stazioni Radar, nonché promuovere delle ricerche su determinati animali con strumenti  GPS, Geolocalizzatori, VHF, Accelerometro, etc.. Ma anche ricerche su popolazioni selvatiche in ambiente naturale ed in cattività, per esempio l’avifauna allevata per ripopolamento e studiare le cause di variazioni dello stress ossidativo e le conseguenze per il successo riproduttivo “fitness Darwiniana”. Il tutto necessariamente coordinato da un unica struttura scientifica accreditata, come potrebbe essere una Università od un Istituto di Ricerca, questa si avvarrà di molti tecnici, biologi, ricercatori, inanellatori riconosciuti ISPRA ed altre figure professionali vicine al mondo venatorio e non solo.

Ufficio Legale ed Ufficio Stampa, creare un unico ufficio legale in sinergia ad un unico ufficio stampa in grado di filtrare e rispondere a tutto quello che esce sui media: sulla TV, sulla stampa, sul web, in pratica filtrare tutto quello che lede l’immagine della caccia e del cacciatore e da li intraprendere anche delle azioni legali concrete contro chi ci diffama. Un unico ed accreditato Ufficio Legale supportato da un unica ed accreditata struttura scientifica che sia in grado di controbattere agli innumerevoli ricorsi contro i calendari venatori.

In sostanza è ora di cambiare pagina una volta per tutte e le risorse economiche che provengono dal mondo associativo venatorio, che non sono affatto poche, dovrebbero ricadere tutte sul territorio con azioni concrete sotto tutti i punti vista. Il tutto a vantaggio dell’ambiente, della comunità e dei cacciatori.

Stefano svegliati!!! Stai sognando???

AMBIENTALISMO DA SALOTTO E CONTROLLO DELLA FAUNA

di Stefano De Vita

Sono un Conservazionista/Ambientalista Cacciatore fiero ed orgoglioso, pescatore e raccoglitore di piante e funghi, che combatte contro il degrado e la distruzione dell’ambiente. Ho messo volutamente prima la parola Conservazionista/Ambientalista  proprio perché senza ambiente non può esistere la caccia.

Il termine Ambientalista identifica colui che difende l’ambiente e non colui che è anticaccia: il vero ed unico ambientalismo ha radici profonde che originano da quel mondo di uomini cacciatori che come fondamento spirituale, filosofico ed in primis materiale, esprimono proprio la difesa a tutti i costi dell’ambiente naturale. Ambiente naturale vissuto e caratterizzato da tutte quelle attività agro-silvo-pastorali compatibili, comprese la caccia e la pesca. Da sempre l’uomo cacciatore è il primo vero ambientalista e purtroppo il mondo venatorio si è fatto scippare questo termine dal moderno ambientalismo da salotto.

E’ risaputo che la maggior parte delle specie minacciate ed in pericolo (in particolare anche specie che mai sono state oggetto di prelievo venatorio) trovano nella perdita di habitat la ragione di questo status delle popolazioni, tutto questo è evidenziato anche da importanti Istituti ed Associazioni come IUCN (International Union for Conservation of Nature), Birdlife International, ed ultimamente anche evidenziato dai Farmland Bird Index (FBI), dove si evidenzia proprio che la perdita di habitat ed una agricoltura intensiva siano la causa del declino di tantissime specie di uccelli, tra l’altro alcune di queste da sempre protetti, invece aumentano sempre le stesse specie opportuniste come per esempio i Corvidi, e risultano stabili o aumentano anche altre specie cacciabili.

Non è più tempo di giocare con le parole e purtroppo in molti fanno ancora e forse volutamente, confusione con la parola Caccia e Controllo. Di fatto chi si occupa di gestione della fauna sa perfettamente cosa esse vogliano intendere - Caccia e Controllo sono due attività completamente distinte: la prima è l’ uso sostenibile di una risorsa naturale rinnovabile;  la seconda è indispensabile per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche. Tutto questo è sancito dalla attuale normativa internazionale e nazionale:
- Legge 157/92 (art. 19, commi 2 e 3)
- Legge 394/91 (art. 11, comma 4; art. 22, comma 6)
- Direttiva Uccelli 1979/409/CEE e 2009/147/CE (art. 9, comma 1, lettera a),
- Legge 3 ottobre 2002, n. 221 nell’art. 19bis L.157/92
- Convenzione di Bonn (art. III, comma 5 per le specie in ALLEGATO I )
- Convenzione di Berna (legge 503/81, art. 9)
- Direttiva Habitat 1992/43/CEE (art. 16) e DPR n. 357/97 coordinato DPR n.
      120/2003 (art.11, comma 1)
Il Controllo si applica dopo e con il parere della scienza e cioè dall’ISPRA che definisce anche modalità, tempi, limiti, metodi, etc. etc.
Da anni ormai è evidente il dramma che coinvolge moltissime aziende agricole e zootecniche che subiscono gravi danni alle loro produzioni dalle ormai conosciutissime specie faunistiche definite “problematiche” come i Cinghiali, i Corvidi, i Storni, le Nutrie, i Piccioni torraioli, le Volpi, ma in alcuni contesti anche i Caprioli. Recentemente, sempre più spesso si parla anche di Lupi e della loro eccessiva proliferazione ed allargamento del proprio areale, anche in zone dove mai era stata segnalata la presenza. Non voglio minimamente entrare nel complesso e discusso tema della sua origine genetica (lupo alpino – lupo appenninico) di fatto ormai questo non conta più perché risulta impossibile ed impensabile andare ad eliminare i probabili lupi alloctoni. I Lupi sono animali che si caratterizzano anche per una spiccata mobilità e quindi per tutta una serie di cause concatenanti quali: aumento degli effettivi e quindi formazioni di nuovi branchi, ricerca delle prede,  quindi ampliamento del proprio areale; questo ormai è un processo irreversibile con la conseguenza che si arriverà ad un certo punto che nel territorio italiano avremo sempre più lupi ed ai tanti (a parte gli zoologi) non è che poi interessa tanto sapere a quale sottospecie appartiene. E ‘ solo un lupo.

A nessun essere ben pensante che abbia a cuore l’ambiente e di conseguenza la sua biodiversità, viene in mente di aprire la caccia al lupo. Al sottoscritto e credo a tutti, questo meraviglioso animale esprime il vero simbolo della natura selvaggia e dello spirito indomito, come del resto lo è l’orso. Non a caso ritrovo nella Wilderness il senso di appartenenza. Ciò non toglie che se anche il lupo iniziasse a creare dei problemi e di fatto in alcuni casi li crea, bisogna che si attivino tutti quei strumenti gestionali previsti da tutte quelle norme sopra evidenziate, in tema di Controllo e non di Caccia della fauna selvatica, tutto questo senza stare a fare giochi di parole o falsi moralismi o strumentalizzando il problema. Non giriamo dietro i problemi, di fatto se ipoteticamente avessimo una eccessiva proliferazione anche di orsi (magari fosse, sarei felicissimo se questa specie rientrasse in questi interventi di controllo, vuol dire che l’Orso è ormai salvo dall’estinzione), etc. etc., tale da creare  squilibri ecologici e magari sfociare anche in pericolo per l’incolumità pubblica, che cosa si fa??? Si interviene applicando le leggi di cui sopra. E’ sancito da queste che in primis si attuano tutta una serie di interventi non cruenti ed in ultima analisi si utilizzano gli abbattimenti ed aggiungo che in tutto questo bisognerebbe anche tenere bene in considerazione tre fattori fondamentali: obiettivi - benefici - costi. Purtroppo, troppe volte questi tre fattori camminano ad ordine sparso.

Bisogna ricordare ad un certo ambientalismo da salotto che ben vengano le popolazioni di animali in aumento, in particolare quelle specie ai vertici della catena alimentare che sono poi generalmente le specie più vulnerabili. Di fatto il lupo è in crescente aumento ed espansione, per una serie di concause, quindi una grande soddisfazione per tutti perché finalmente è scongiurato il pericolo di estinzione. Cosa purtroppo che non è successa con l’Orso bruno marsicano che è stato oggetto di innumerevoli studi, progetti, ricerche che sono costati milioni e milioni di euro, mai una specie è stata studiata e costata così tanto. Mai un simile fallimento che invece forse con semplici interventi e tra l’altro con pochi costi  gestionali si sarebbe certo salvata una ricchezza italiana.

E’ chiaro che provocatoriamente ho citato alcune specie. Quindi, ricordando a tutti che MAI e poi MAI si vuole e si pensa di aprire la caccia al lupo, agli orsi, alle aquile, ai gatti selvatici ed a chi più ne ha più ne metta. Sono tutti animali da tutelare con norme severissime.

Proprio su Bighunter abbiamo letto che l'Europa, tramite il progetto Life e la Commissione Ue, nonché il Comitato permanente della Convenzione di Berna (che ha già aperto una sorta di procedura di infrazione verso l'Italia) e l'Ispra, sono tutti d'accordo: lo scoiattolo grigio va fermato prima che causi la definitiva scomparsa della specie autoctona, prima che la sua presenza sia irrimediabile, (tratto da Bighunter).
Ed è proprio di  domenica 17 marzo scorso il servizio su Canale 5  alla rubrica televisiva “l’Arca di Noè” sulla nuova Legge che vieta il commercio, la detenzione, etc. di molte specie di scoiattoli alloctoni, proprio per salvaguardare il nostro scoiattolo autoctono, lo Sciurus vulgaris. Tutto pienamente condivisibile, ma poi la giornalista del servizio ricorda che il Ministero dell’Ambiente aveva anche programmato una serie di interventi per l’eradicazione dello scoiattolo grigio e da questa decisione l’insorgere delle associazioni animaliste e quindi marcia indietro del Ministero dell’Ambiente.
Ma ancora proprio di pochi giorni fa la notizia diffusa ovunque che la Provincia di Siena ha deciso una moratoria di un mese per slittare il controllo della volpe. La Provincia di Siena come si sa è il fiore all’occhiello della gestione faunistica e se non erro su 24 ORE di qualche anno fa uscì un bellissimo articolo che era stata presa a modello europeo in tema di gestione faunistica.
Se in Europa vengono a sapere che qui ci si piega come strilla un anticaccia, anche quando si ha ragione, che figura ci facciamo???

Ecco, questo ci fa capire come si gestisce e si conserva la nostra biodiversità per il volere anticaccia di un certo ambientalismo da salotto.

Basta con i giochi di parole, il controllo della fauna è una cosa seria per la conservazione della nostra biodiversità. E che questo ambientalismo da salotto, rimanga nei salotti.

LA FAUNA SELVATICA: COME UN GRANDE CARTOONS
di Stefano De Vita

Oggi leggendo un articolo apparso sulla STAMPA.it – TuttoGreen – dove Elisabetta Corrà intervista l’Ecologo e Presidente del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze Guido Chelazzi che ci presenta il suo libro  autore de “L’impronta originale”. Titola l’articolo: “La guerra eterna tra uomo e ambiente” e poi continua; “Non esiste né mai è esistito un rapporto “naturale” tra l’uomo e l’ambiente”. Articolo che sicuramente susciterà polemiche nel mondo animal-ambientalista. Di fatto questa è la realtà delle cose:
Nel cocktail velenoso di fattori che hanno innescato il declino pauroso della biodiversità il più distruttivo è sicuramente la perdita di habitat. Non ha senso porsi come obiettivo la salvezza di una specie se non c’è più un habitat che la sostenga. Le aree protette, come i parchi nazionali, possono addirittura contribuire al declino di una specie, funzionando come “rifugi” temporanei, ma alimentando il crollo delle popolazioni per eccesso di impacchettamento.

Ho preso spunto da questo interessantissimo articolo per scrivere alcune considerazioni, anche ironiche, in merito ai gravissimi problemi causati dalla fauna selvatica problematica, situazione che  ormai in Italia è diventata incontrollabile ed anche alquanto imbarazzante.

Giorni fa parlavo con un mio amico residente all’estero che mi fa questa domanda: ma voi in Italia i cervi li chiamate Bambi? Al che stupito gli rispondo: ma che dici Franco. Mi risponde: ha saputo che un Amministratore locale di una Regione Italiana che tra l’altro è stato a capo di uno dei più importanti Ministeri, dichiarava che mai si sarebbero uccisi i Bambi. A questo punto capendo di che cosa stava parlando, gli rispondo: si ma ormai qui è così, nonostante ci siano le norme che permettano il controllo della fauna selvatica, ed anche quando ci siano i pareri della scienza cioè l’ISPRA, qui basta che qualche animalista strilli in difesa del Bambi, che molti Amministratori fanno dietro front e non ottemperano a quello che invece è dettato dalle normative, o quanto meno si limitano a pagare i danni o a trovare soluzioni alternative. Ma comunque non risolvendo i problemi.

Franco mi chiede ancora: ma da voi come funziona se degli animali creano problemi?? Gli rispondo:
Il controllo delle popolazioni di fauna autoctona ed alloctona rappresenta un’attività in deroga al regime generale di protezione di tutta la fauna che sia autoctona che alloctona. Questo è sancito dalla attuale normativa internazionale e nazionale:
- Legge 157/92 (art. 19, commi 2 e 3)
- Legge 394/91 (art. 11, comma 4; art. 22, comma 6)
- Direttiva Uccelli 1979/409/CEE e 2009/147/CE (art. 9, comma 1, lettera a),
- Legge 3 ottobre 2002, n. 221 nell’art. 19bis L.157/92
- Convenzione di Bonn (art. III, comma 5 per le specie in ALLEGATO I )
- Convenzione di Berna (legge 503/81, art. 9)
- Direttiva Habitat 1992/43/CEE (art. 16) e DPR n. 357/97 coordinato DPR n.
      120/2003 (art.11, comma 1)
Di fatto queste norme ci danno nell’insieme le motivazioni per le applicazioni degli interventi in deroga per il controllo delle popolazioni animali problematiche:
- nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica,
- nell’interesse della sicurezza aerea,
- per prevenire gravi danni alle colture, al bestiame, ai boschi, alla pesca e alle acque ed alle      proprietà,
- per la protezione della flora, della fauna e degli habitat,
- per la migliore gestione del patrimonio zootecnico,
- per la tutela del suolo,
- per la selezione biologica,
- per la tutela del patrimonio storico-artistico,
- per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche,
- per ricomporre squilibri ecologici.
Per intervenire, tutto quanto esposto ci da anche i strumenti e le modalità tecniche e burocratiche,  sintetizzando: i piani di controllo faunistico devono quantificare il danno, menzionare le specie che ne formano oggetto, i soggetti, i mezzi, gli impianti e i metodi di prelievo autorizzati, le condizioni di rischio, le circostanze di tempo e di luogo del prelievo, il numero dei capi giornalmente e complessivamente prelevabili nel periodo, i controlli e le forme di vigilanza cui il prelievo è soggetto e gli organi incaricati della stessa.
Il tutto con il parere favorevole della scienza e cioè l’ISPRA.
Franco mi replica: ma ti rendi conto Stefano se qui da noi  un Amministratore pubblico chiamasse Bambi un cervo problematico, ma anche Yoghi o Bubu un orso problematico, oppure se i coyote o i lupi, come spesso succede creano gravi danni alle farms, ti rendi conto che succederebbe se per caso li chiamassero Wilcoyote e Lupo  Ezechiele. Qui da noi, rispondo, purtroppo (con le dovute eccezioni) ormai si è arrivati ad un rapporto con la natura e la fauna selvatica come un grande cartoons, si è persa la logica delle cose, noi abbiamo Bambi, Yoghi, Lupo Ezechiele, Cip e Ciop, Red Fox, ma abbiamo anche Pluto, se pensiamo a quanti Pluto problematici, per esempio quelli che hanno aggredito e ucciso persone in vari parti d’Italia, e Pluto è meglio catturarlo e chiuderlo in gabbia a vita in un ipotetico e mai riadattamento e reinserimento ad una vita normale di cane domestico. Pensiamo solamente a quanti piccoli Topolino e Minny si uccidono con il veleno e trappole, con grande sofferenza e morti dolorose per questi. Che differenza c’è nel controllare una popolazione di Topolino e Minny o una popolazione di Bambi?????

Cerchiamo di rimanere con i piedi in terra e ragionare con raziocinio, pensando a come si può sentire quell’allevatore o quell’agricoltore che ha perso il suo capitale, il suo reddito, il suo lavoro, la sua passione, la sua vita. E bello e comodo sentenziare da una scrivania al fresco di un ufficio con l’aria condizionata e dettare o peggio imporre regole a chi sul territorio ci sta da una vita e conosce i ritmi naturali e non vede e vive la natura su un PC o su un IPod o su un Tablet. Bisogna fare anche un’altra considerazione in relazione a questi tempi in cui ci si riempie la bocca con frasi tipo: bisogna allevare in modo estensivo in questo modo gli animali vivono meglio ed hanno carni migliori, tutto giusto, ma poi chi e come si difendono gli animali liberi al pascolo?? Qualcuno ci proverà ad insegnare i vari sistemi di difesa indiretta ed ecologica, sistemi che tutti conosciamo, ma che poi la maggior parte delle volte si sono rilevati inefficaci contro popolazioni animali sempre più numerose ed invasive. L’unica difesa?? Allevare intensivo, animali chiusi, stabulati e mangimi. Ma questo giustamente non piace a nessuno. Allora quale è la soluzione?? Semplice, applicare le leggi senza se e senza ma.

Al mondo venatorio si può contestare molto, ma certo non si può contestare che le AAVV sono capillarmente presenti sul territorio con le loro delegazioni, circoli ed i propri aderenti, pronti volontariamente ad intervenire qualora necessiti per il controllo delle popolazioni di fauna selvatica problematica. Tra l’altro i cacciatori volontari per intervenire devono aver effettuato dei corsi di abilitazione e sostenuto degli esami, corsi che rispecchiano dei dettami voluti dall’ISPRA ed approvati dalle Amministrazioni competenti.
Non credo che esistano altre associazioni in grado di poter intervenire con i propri volontari competenti ed abilitati ed i propri soldi, in modo sempre tempestivo e capillare alla chiamata delle Amministrazioni provinciali competenti.

Che fare?? Quale soluzione per cercare di sbloccare questo stato di cose?? Girare il problema a chi si oppone immotivatamente e dove la maggior parte delle volte non propone soluzioni alternative idonee per risolvere il problema, magari proponendo il solo risarcimento dei danni, che come abbiamo visto, molte volte non risarciti o in ritardo, o in parte od in forma minima, o ancora proponendo catture e spostamenti o sistemi dissuasivi, etc. Ma ancora peggio è che i problemi continuano a crescere in modo esponenziale, quindi un fallimento totale. In ultimo ma non per importanza, un immenso sperpero di denaro pubblico.

Credo che sia arrivato il momento di adeguarsi ai tanti lavoratori di tante attività sociali e produttive, che quando le cose non vanno si sciopera. E’ ora che tutti i cacciatori che operano nel controllo delle specie selvatiche problematiche smettano in tutta Italia di effettuare tale attività, questo anche e soprattutto per solidarietà a quelle province dove per i motivi elencati si è impossibilitati a tali controlli.
Quindi in definita quattro azioni immediate:
1) Stop al controllo in tutta Italia della fauna selvatica problematica da parte dei cacciatori;
2) Che questi controlli se ne occupino gli animal/ambientalisti, con le loro proposte ed i loro sistemi, ma chiaramente anche con i propri soldi  ed i propri volontari, anche loro abilitati da appositi corsi. (e vogliamo vedere i risultati);
3) Adoperarsi per le vie legali verso quelle Amministrazioni che non ottemperino o che non producano risultati tangibili in materia di controllo delle popolazioni di fauna problematica.
4) Che i risarcimenti danni vengano pagati da chi si oppone immotivatamente, salvo che questi si prendano  la responsabilità di azioni alternative alla risoluzione del problema. (anche in questo caso vogliamo vedere i risultati).

Un documento che tutte le AAVV dovrebbero stilare uniti e solidali e protocollarlo a tutte le Amministrazioni competenti: Ministero Politiche Agricole – Ministero Ambiente – Regioni e Province.

La fauna selvatica ovunque nel mondo è considerata una risorsa, da noi purtroppo delle volte e per certi versi è un problema ed una immensa remissione economica.
Se questo fosse rapportato ad una Azienda, sarebbe fallimentare e bisognerebbe chiedere il licenziamento o sanzioni a chi ha portato a tale fallimento.
 

LA NUOVA SOTTOSPECIE: HOMO SAPIENS URBANUS 

di Stefano De Vita

La vita rurale e l’essere selvatico inteso come vita sociale e quotidiana verso l’autosufficienza e l’autosostentamento, non fa più parte del patrimonio genetico dell’uomo civilizzato, tra l’altro essere civilizzato/educato/rispettoso è un termine anche tanto abusato, perché sfido chiunque a dirmi chi è più civilizzato/educato/rispettoso se un nativo Indiano d’America o un nostrano “Urbanus”.  Oggi tutto ci allontana dalle nostre origini, quando l’uomo era un raccoglitore di bacche e piante eduli, un cacciatore, un pescatore e poi un agricoltore e allevatore. Pochi esseri umani cosiddetti civilizzati in particolare quelli che vivono nelle grandi città, appunto gli “Urbanus” in caso di necessità anche temporanea, sarebbero in grado di sopravvivere in ambiente naturale e selvatico anche per poche ore. Il patrimonio genetico di questi, la manualità, l’apprendimento, l’adattamento, la rudezza, la forza, la sensibilità naturale ed il senso del selvatico, si è perso in nome di un progresso scellerato e di uno sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, il tutto per far posto alle mille comodità finanche inutili e ad uno esasperato consumismo volto solo allo spreco dove nulla viene riciclato e mantenuto, ma al contrario un continuo uso e getta. Il tutto a discapito dell’ambiente e del nostro essere uomo.

Pochi di noi sono per il completo riclico delle cose e quindi del loro riutilizzo, che siano oggetti o che siano prodotti naturali. C’è chi, anche con difficoltà, pratica da anni una vita sociale e quotidiana rivolta verso l’autosufficienza e l’autosostentamento come da sempre hanno fatto e praticano tutt’ora molti “popoli nativi”, chiaramente per ovvi motivi, non ci si può escludere totalmente dalla modernità che per il momento ci ingloba tutti, ma in ogni caso quei pochi eletti rifuggono il consumismo, rifiutano lo spreco e il sistema dell’usa e getta. Pochi sono ancora dei  raccoglitori di bacche, di frutti del bosco e di piante eduli, pochi ancora dei cacciatori e pescatori, ma anche orticoltori ed allevatori. Tutto questo  porta a vivere serenamente il quotidiano a contatto diretto con la terra, la ruralità, gli animali e la natura, lontano dai ritmi frenetici e del caos cittadino. Nel rispetto dell’etica e delle normative questi sfruttano a pieno tutte le risorse naturali rinnovabili. Questi pochi eletti non sprecano denari dietro a vestiari di moda od altre mode in uso del popolo degli “Urbanus”, vedi i telefoni cellulari, computer, automobili moderne, etc.. Utilizzano un abbigliamento semplice, essenziale e pratico ma robusto che dura nel tempo, pochi capi secondo le stagioni e secondo il giusto stile di vita, il tutto senza stupidi fronzoli e belletti. Per riscaldare casa e cucinare c’è chi ancora utilizza la legna, quindi caminetto e cucina economica. Per  l’alimentazione solo carne e pesce chiaramente cacciata e pescata, quindi proteina sana e non imbottita di prodotti chimici, ma anche allevamento animali da cortile ed orto naturale, pane, pasta, pizza e dolci fatti in casa, per non parlare di uova, formaggi, olio e salumi, rigorosamente di produzione propria. Al contrario l’Homo sapiens urbanus non mangia il pane del giorno prima, basti vedere quanto pane dai forni, tra l’altro pane fresco del giorno precedente, viene buttato perché non più vendibile, non più bello alla vista, al tatto, al palato. Per non parlare dei mercati e frutterie, anche in questo caso il più delle volte verdure e frutta appena intaccate ma non più vendibili per l’Homo sapiens urbanus e quindi buttate. Quanto inutile spreco, cibo inutilizzato dagli schizzinosi che potrebbe invece essere utilizzato, almeno per i meno abbienti e più bisognosi.
Proprio nelle città assistiamo ormai da qualche tempo a dei veri mercatini di cose usate, dove i nomadi andando letteralmente per secchioni dell’immondizia recuperano e riciclano tutti gli oggetti che l’Homo sapiens urbanus getta via perché non più alla moda oppure guasti e dove la voglia di ricomprare sempre il nuovo ed alla moda impone a questi Urbanus di non riparare gli oggetti. Ebbene è curioso vedere in questi mercatini i tanti Urbanus,  ed in particolare proprio nei giorni scorsi di feste natalizie, comprare oggetti usati ma totalmente revisionati e rimessi a nuovo splendore, quindi riciclati. Loro, gli Urbanus, acquistare i loro stessi oggetti gettati via. Quanta stupidità civilizzata.

Nessuno individuo della specie Homo sapiens in particolare “l’Homo sapiens urbanus” è esente, o escluso dal creare danni all’ambiente naturale,  anche indirettamente,  perché proprio questa fame di modernità, di volere tutto e di più ad ogni costo alimentando sempre più questo consumismo che sta portando il pianeta terra verso l’irreparabile.
Non sono esclusi neanche tutti quelli che professano una alimentazione senza l’uso o sfruttamento degli animali, anche loro sono colpevoli di fare danni all’ambiente naturale. L’ambientalista che si professa anticaccia o antipesca, l’animalista vegetariano, questi se non usano scarpe in cuoio le usano in materiale sintetico che è derivato dal petrolio, se usano una pelliccia ecologica anche questa viene dal petrolio, se usano una cinta sintetica anche questa è derivata dal petrolio, si muovono con l’auto ed inquinano l’aria, utilizzano centinaia di prodotti di plastica ed anche questi vengono dal petrolio, plastica che poi non è biodegradabile e quindi inquinante, utilizzano l’energia elettrica ed altre risorse energetiche per tutti i tipi di elettrodomestici e strumenti elettronici quindi sempre sfruttamento delle risorse e tanto materiale inquinante, con che cosa riscaldano le proprie case, sempre sfruttando risorse energetiche ed inquinanti. Ma anche il mangiare cosi detto sano, genuino, biologico lo è solo con l’uso di concimi naturali e quindi in gran parte a base di letame, letame che viene dall’allevamento degli animali domestici da reddito. Altrimenti, se mangi vegetariano non proveniente da agricoltura biologica, ma da agricoltura intensiva, questa utilizza solo prodotti chimici altamente inquinanti e dannosi alla biodiversità, prodotti chimici persistenti anche negli anni nel ciclo vitale. Volutamente voglio estremizzare ma forse neanche tanto: il tagliare o peggio strappare dalla terra  una vita vegetale per cibarsene, vuol dire ferirla, ucciderla e lo riprova il fatto che la linfa bianca o incolore sgorga dalla parte recisa, come cercare di porre rimedio ad una morte molte volte annunciata, ma la pianta proprio per la sua specificità di essere vegetale non suscita emozioni ai più. Ma aggiungo, sono esseri viventi come gli stessi animali.
In pochissime parole ogni nostra attività del quotidiano, ogni oggetto che usiamo, ogni cosa che possediamo ha provocato e provoca uno sfruttamento delle risorse naturali e rinnovabili e nella maggioranza dei casi con effetti devastanti sul pianeta. L’Homo sapiens ed in particolare “l’Homo sapiens urbanus” è solo un grande ipocrita non in grado ad ergersi a paladino difensore della natura.
Per i nostri antenati  i “popoli nativi” l’inseguimento, la cattura e l’uccisione di un animale era ed è sempre accompagnata da riti propiziatori alla caccia e da preghiere o riti di ringraziamento alle divinità della natura selvatica.
Nell’universo  naturale selvatico, che da sempre ci ha affascinato e continua ad affascinare e commuovere le sensibilità umane, esiste solo un dogma - la vita: nascere, crescere, nutrirsi, riprodursi, in un susseguirsi  di predati e predatori per ritornare poi tutti dalla terra, in un ciclo naturale della vita e della morte di tutti gli esseri viventi che siano animali o piante. Da sempre la sofferenza è una parte essenziale della vita e senza la morte non ci sarebbe la vita. La caccia, la pesca, l’agricoltura, l’allevamento, in poche parole tutte le attività agro-silvo-pastorali fanno parte dell’essere selvatico tramandato dalla cultura, dalla storia e dalle tradizioni ed impresso nel patrimonio genetico ancora di molti. Questo patrimonio va preservato, difeso ed incentivato.
L’uomo è solo un ospite temporaneo nel sistema naturale della vita selvatica, non quest’ultima che deve sottostare alle leggi dell’uomo ed essere plasmata ed ingabbiata, ma al contrario è l’uomo che deve adattarsi alle leggi della natura selvatica e da questa trarne sostentamento fisico e spirituale. Il tutto nel rispetto delle risorse rinnovabili.
 

DANNI DI FAUNA SELVATICA: Chi rompe paga…. 

di Stefano De Vita

Da sempre i proverbi hanno accompagnato il corso della storia, i proverbi sono frutto di saggezza popolare, nascono dall’esperienza dell’uomo nella vita di tutti giorni.
Il proverbio rappresenta la saggezza dei vecchi ed è senz’altro una saggezza che merita di essere tramandata ai giovani.
Fatta questa piccola premessa su un vecchio proverbio “Chi rompe paga…..ed i cocci sono suoi” credo che potrebbe calzare anche in tema di eventuali responsabilità su aspetti legati anche  alla gestione faunistica ed al controllo delle specie problematiche.
Come in tutte le cose che vengono trascurate o quanto meno piccoli inefficienti interventi che in pratica non risolvono il problema ma lo spostano o lo prolungano all’infinito, con l’aggravio di ingenti somme di denaro pubblico spesi a vuoto: anche in questo caso la gestione ed il controllo della fauna problematica autoctona ed alloctona ormai ci pone davanti ad un domanda; è possibile ancora ed in particolare in questo periodo di estrema difficoltà economica che sta passando il nostro paese, continuare a sperperare denaro pubblico? 
È di pochi giorni la notizia che in Provincia di Siena a causa di un incidente automobilistico si è  dovuto far ricoverare il cervo a spese del contribuente, mentre la giovane donna rimasta coinvolta ha perso un braccio e non ha diritto ad alcun risarcimento perché la strada recava la segnaletica prescritta. Quella povera donna ha perso un braccio e non vivrà più una vita normale e per giunta non verrà risarcita, oltre al danno anche la beffa, a carico del contribuente il ricovero del cervo. Non entrando nei meriti di questa disgrazia, di esempi simili in Italia è pieno. Le cause chiaramente sono molteplici ed anche concatenanti. Di fatto però nel nostro paese a differenza che nel resto del mondo, nonostante abbiamo leggi che ci dicono come intervenire, troviamo sul percorso mille impedimenti e mille ricorsi, molte volte sempre generati dagli anticaccia.

Entrando nel merito legislativo di riferimento diciamo subito che Caccia e Controllo sono due attività completamente distinte: la prima è l’ uso sostenibile di una risorsa naturale rinnovabile;  la seconda è indispensabile per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico,
per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche. LO DICE LA LEGGE e non io.
Il controllo delle popolazioni di fauna autoctona ed alloctona rappresenta un’attività in deroga al regime generale di protezione di tutta la fauna che sia autoctona che alloctona. Questo è sancito dalla attuale normativa internazionale e nazionale:
- Legge 157/92 (art. 19, commi 2 e 3)
- Legge 394/91 (art. 11, comma 4; art. 22, comma 6)
- Direttiva Uccelli 1979/409/CEE e 2009/147/CE (art. 9, comma 1, lettera a),
- Legge 3 ottobre 2002, n. 221 nell’art. 19bis L.157/92
- Convenzione di Bonn (art. III, comma 5 per le specie in ALLEGATO I )
- Convenzione di Berna (legge 503/81, art. 9)
- Direttiva Habitat 1992/43/CEE (art. 16) e DPR n. 357/97 coordinato DPR n.
      120/2003 (art.11, comma 1)
Di fatto queste norme ci danno nell’insieme le motivazioni per le applicazioni degli interventi in deroga per il controllo delle popolazioni animali problematiche:
- nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica,
- nell’interesse della sicurezza aerea,
- per prevenire gravi danni alle colture, al bestiame, ai boschi, alla pesca e alle acque ed alle  
  proprietà,
- per la protezione della flora, della fauna e degli habitat,
- per la migliore gestione del patrimonio zootecnico,
- per la tutela del suolo,
- per la selezione biologica,
- per la tutela del patrimonio storico-artistico,
- per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche,
- per ricomporre squilibri ecologici.
Per intervenire, tutto quanto esposto ci da anche i strumenti e le modalità tecniche e burocratiche,  sintetizzando: i piani di controllo faunistico devono quantificare il danno, menzionare le specie che ne formano oggetto, i soggetti, i mezzi, gli impianti e i metodi di prelievo autorizzati, le condizioni di rischio, le circostanze di tempo e di luogo del prelievo, il numero dei capi giornalmente e complessivamente prelevabili nel periodo, i controlli e le forme di vigilanza cui il prelievo è soggetto e gli organi incaricati della stessa.
Prendendo riferimento su dati relativi di moduli didattici in un Corso per l’abilitazione a selecontrollori nella Provincia di Lodi  - Aspetti Normativi - B. Franzetti ISPRA - Motivazioni ecologiche all’origine del conflitto – B. Franzetti ISPRA, abbiamo delle conferme con delle indicazioni precise riguardo le cause dell’aumento esponenziale della fauna alloctona ed alloctona: modifiche e/o alterazioni degli habitat - immissioni e rilasci a scopo venatorio anche con soggetti non idonei e quindi potenziali “prede” - relativa scomparsa dei grossi predatori - importazione di specie per motivi economici/ornamentali e loro successivo rilascio, accidentale o intenzionale - proliferazione di discariche - incremento della disponibilità alimentare foraggiamento, etc.
A questo aggiungiamo l’ andamento decrescente del numero di cacciatori dal 1991 al 2007 si è passati da 1.400.000 a 750.000 tra il 1991 e il 2007 si osserva una riduzione della pressione venatoria quindi del prelievo del 42%.
Le conseguenze sull’aumento della fauna selvatica autoctona ed alloctona che ricadono sul territorio sono: impatti sulle attività commerciali (agricoltura, allevamento, ittiocoltura); impatto sulle altre specie - predazione diretta, impatti indiretti (distruzione di nidi), competizione alimentare; ibridazione e inquinamento genetico; trasmissione di malattie; rischi per l’incolumità pubblica; incidenti stradali, danni alle arginature; danni al patrimonio storico-culturale.

Solo alcuni dati rapportati in euro tratto dalla pubblicazione: Motivazioni ecologiche all’origine del conflitto – B. Franzetti ISPRA.
Questo è solo un piccolissimo spaccato dell’ingente mole di denaro pubblico che viene speso in Italia. Denaro che potrebbe essere utilizzato per altri fini.

Solo un esempio che riguarda il Piemonte.
Incidenti stradali: 1992-2002: 1683 incidenti periziati = € 2.190.000

Per la refusione dei danni causati dal Cinghiale Italia (2004) > € 7.000.000
Parco Nazionale del Pollino 2007-2009: € 2.212.000
Prov. Matera 2004-2010 € 1.200.000
Regione Val d’Aosta 2005-2012 € 646.659
Parco Ticino Pimonte 2003-2011 € 738.206
Parco regionale Colli Euganei
2003-2009: € 679.206 x controllo
2000-2009: € 140.396 x danni (liquidati)

La Nutria sempre più in espansione coprendo una superficie di 68.599 Kmq
€ 11.631.721 (refusione danni)
€ 2.614.408 (controllo)
costo medio: € 3.773.786/anno
Stima costi futuri > 9-12 milioni €/anno
Prendiamo ora ad esempio una specie che da anni è sotto l’occhio di tutti. Lo Storno Sturnus vulgaris. Ho letto recentemente su un forum, che solo in Emilia Romagna nel 2011 sono stati conteggiati danni causati dagli storni  pari a € 221.000. Questo la dice lunga sui danni causati in tutta Italia.
Per parecchi anni fino al 2010 se non erro  l’ISPRA ci diceva che non era opportuno includere nuovamente lo storno nelle specie cacciabili in Italia, in quanto un eventuale prelievo e continuativo nell’arco temporale che va dalla terza domenica di settembre al 31 gennaio andava ad incidere su popolazioni migranti nordiche in declino. Ora la situazione di quelle popolazioni in declino sembrerebbe migliorata??? Ecco giustamente cambiare le considerazioni dell’ISPRA sullo Storno nel 2011:
“CONSIDERAZIONI IN MERITO ALLA POSSIBILITÀ DI INSERIMENTO DELLO STORNO TRA LE SPECIE CACCIABILI IN ITALIA – estratto.
[…] Si può desumere pertanto che in Italia la caccia non avrebbe un impatto superiore a quello che si determina in realtà territoriali dove lo Storno è cacciabile in base all'allegato II/2 della Direttiva n. 2009/147/CE.
A) Sussistenza delle condizioni che permettono di consentire la caccia dello Storno in Italia - Assenza di criticità. A tale riguardo occorre valutare se si possa consentire la caccia rispettando i principi indicati dalla Direttiva n. 2009/147/CE e richiamati in premessa; pertanto, di seguito vengono analizzati alcuni aspetti relativi all’abbondanza della specie in Italia, allo stato di conservazione delle popolazioni e all'entità del prelievo venatorio.
1. Importanza dell'Italia quale area dl transito e svernamento dello Storno in riferimento al contesto europeo. La posizione dell'Italia è centrale rispetto all'areale di svernamento della specie nel Paleartico occidentale. Per questa ragione il Paese ogni anno viene raggiunto da un ingente quantitativo di soggetti provenienti da una vasta area che si estende nell'Europa orientale e settentrionale. Valutazioni effettuate sulla base dei dati di inanellamento e ricattura e sulle stime delle popolazioni nidificanti hanno fatto ipotizzare che l'Italia ogni anno sia interessata dall'arrivo di alcune decine di milioni di individui, corrispondenti a circa un terzo dell'intera popolazione paleartica.
4. La cacciabilità dello Storno non comporta problemi per la conservazione di specie protette. Non vi sono elementi che facciano supporre che la caccia allo Storno possa pregiudicare le azioni di conservazione intraprese in Italia. La specie è facilmente distinguibile dalle altre specie cacciabili e dalle specie protette, per cui non sussiste un rischio concreto che vengano abbattuti, per errore, uccelli appartenenti ad altre specie.
[…] Conclusioni  A livello mediterraneo esiste una sostanziale omogeneità di situazioni per quanto riguarda i contesti ambientali dove lo Storno sverna, la consistenza e lo stato di conservazione delle popolazioni, le modalità di caccia adottate e le problematiche gestionali esistenti. Le informazioni attualmente disponibili mostrano come in Italia vi siano le condizioni affinché lo Storno possa essere cacciato con modalità analoghe a quelle previste negli altri Stati membri dove la specie è già oggetto di caccia”.

Di fatto però in Italia, dati del 2004, si stimava una popolazione nidificante di 3 milioni di coppie con probabile tendenza all’aumento a cui si aggiungono gli storni migranti provenienti da un vasto areale che va dall’Europa centrale fino alla Russia europea, in questa vasta area si stima che nidificano da 13 a 31 milioni di coppie. Indicativamente si stimava che la popolazione migrante di storni che si riversava sull’Italia fosse di alcune decine di milioni di individui e solo su Roma circa 3-4 milioni di individui.
Se andiamo a vedere in Italia i dati del 2004 e i dati attuali del 2011 (vedi sopra considerazioni ISPRA) si riversano sempre 20 milioni di storni, quindi si poteva tranquillamente intervenire prima, come si può intervenire ora.
Di fatto nell’applicazione dello deroghe e quindi al controllo di questa specie, ci sono sempre stati mille complicazioni ed intoppi di carattere tecnico-burocratico e finanche di carattere emotivo, quindi come di consueto fioccano i ricorsi degli anticaccia.
Ora a fronte anche delle spinte emotive che portano sempre a cercare di bloccare gli interventi di controllo della fauna è ora di intervenire con quel sano proverbio in premessa e cioè CHI ROMPE PAGA. Sarebbe il caso che lo Stato, le Regioni, e le Amministrazioni che si occupano di gestione della fauna, emanino una norma che preveda:  Qualora non vengano applicati interventi di contenimento selettivi e o controllo sulla fauna selvatica autoctona, sulla fauna domestica inselvatichita e sulla fauna alloctona, in ottemperanza alla Legge 157/92, alle Leggi regionali di recepimento, alla Legge 394/91, alle Direttive Comunitarie, ad altre norme e disposizioni in materia: ovvero per motivi di igiene e sanità pubblica e veterinaria, ovvero per danni all’agricoltura, alla zootecnia, al patrimonio forestale, ovvero per danni alla piscicoltura, ovvero per motivi di sicurezza stradale o aeroportuale, ovvero per danni alle specie autoctone, ovvero a tutela dell’incolumità pubblica;  qualora si ravvisassero delle responsabilità ostantive da parte di Enti, Amministrazioni, Associazioni, Istituti pubblici e privati, etc. non supportate da dati tecnico-scientifici, questi saranno tenuti in solido a risarcire gli eventuali danni, nonché responsabili civilmente e penalmente.
Sicuramente data l’entità economica dei danni sarà difficile che qualcuno si opponga immotivatamente al controllo della fauna problematica, se poi sarà chiamato a pagare di tasca propria. CHI ROMPE PAGA …….e i cocci sono suoi.
In ultimo voglio aggiungere, che lo Stato, le Regioni, etc., sempre in tema di risparmio economico, snellimento della burocrazia, etc. etc. dovrebbero promulgare una norma che validasse in tutto il territorio italiano le varie abilitazioni in tema di gestione faunistica, caccia di selezione, controllo specie problematiche, etc. etc. Quindi l’abilitazione presa in qualsiasi Provincia sia valida in tutto il territorio nazionale. Del resto tutte le province adottano le direttive dell’ISPRA. Quindi che si legiferi in tal senso:
Il prelievo selettivo degli ungulati e controllo della fauna è praticato da coloro che risultano in possesso di attestato di abilitazione rilasciato dalla Provincia, da Enti, da Associazioni, da Istituti di protezione (aree protette) che abbiano comunque predisposto ed organizzato corsi specifici secondo le linee guida dell’ISPRA .e con il parere favorevole dell’ISPRA.
  Sono abilitazioni riconosciute in tutto il territorio nazionale come la licenza di porto di fucile ad uso caccia;
a) l'abilitazione all'esercizio della caccia di selezione agli ungulati;
b) l'abilitazione all'esercizio del controllo faunistico
c) l’abilitazione di conduttore cane da traccia e da limiere.
d) nonché tutte le altre abilitazioni in tema di gestione faunistica-venatoria.

E’ ORA DI  FARE INFORMAZIONE – Caccia,  siccità ed altro

di Stefano De Vita

Non mi interessa cambiare la 157/92 - non mi interessa cacciare di più - non mi interessa la preapertura.

Però è giusto informare -

senza informazione non c'è conoscenza e senza queste due cose è difficile difendersi, anzi si sarà sempre perdenti.

Prima di scrivere alcune considerazioni in merito all’oggetto dell’articolo voglio ricordare questi tre principi riportati qui di seguito:

Sentenza della CORTE dei DIRITTI UMANI di STRASBURGO
n° 9307/07 del 20/01/2011
La Corte dei Diritti Umani Europea di Strasburgo, con sentenza del 20 gennaio 2011 riconosce in maniera esplicita (chiara) il valore ambientale, economico e sociale dell' attività venatoria. L' Alta Corte ha concluso che non vi è stata nessuna violazione dei diritti dell' uomo, che le associazioni venatorie sono istituti di diritto pubblico, a cui spetta il compito di controllo dell' attività venatoria, per il mantenimento delle popolazioni faunistiche, nell' interesse generale di tutta la comunità.

Guida alla disciplina della caccia nell’ambito della Direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli Uccelli selvatici, il quale chiarisce: “La Direttiva riconosce pienamente la legittimità della caccia agli uccelli selvatici come forma di sfruttamento sostenibile. La caccia è un’attività in grado di generare importanti ricadute di origine sociale, culturale, economico e ambientale……”.

Legge Regionale del Lazio la 17/95 che recepisce la Legge Quadro 157/92
Art. 6 - (Attività di ricerca e promozione della conoscenza della fauna e degli habitat)
1. La Regione svolge funzioni di indirizzo e coordinamento nei confronti degli enti locali e degli organismi da essi costituiti e promuove attività di sensibilizzazione avvalendosi della collaborazione e dell'impegno volontario delle organizzazioni professionali agricole, delle associazioni venatorie, delle associazioni di protezione ambientale, nazionalmente riconosciute.
2. La Regione, in collaborazione con gli istituti scientifici e con le autorità scolastiche, promuove iniziative finalizzate a diffondere la conoscenza del patrimonio faunistico e dei metodi per la sua tutela e gestione.
In sostanza la conoscenza e l’informazione della caccia anche nelle scuole.


Voglio fare ora una sostanziale premessa prima di toccare i vari punti che hanno interessato gli ultimi mesi in relazione agli eventi siccitosi. Ormai è ciclico ed in un momento storico di gravissima crisi economica che ha investito tutti a vari livelli, si ritorna ancora a parlare di caccia e purtroppo troppe volte a sproposito ed in modo strumentale. Ci ricordiamo tutti le varie vicende politiche, tavoli di confronto tra le componenti sociali  e discussioni varie legate alle modifiche della 157/92, ma anche riemergere sempre sulla questione in senso generale sulla socialità e utilità della caccia, troppe volte portata avanti ad arte dal politico di turno, o da quel vip, o uomo di cultura o da certa stampa e giornalisti, in pratica chi più ne ha ne metta in un marasma di completa non conoscenza della materia venatoria, il tutto invocando un Europa da rispettare ed equiparando il più delle volte un mondo animale e la gestione faunistica in un surrogato di carattere dysneniano.  Il mio articolo non vuole essere un contributo per cambiare la 157/92 o per più caccia e più specie, questo per evitare facili strumentalizzazioni, ma solo per chiarire che comunque non ci si può prendere in giro. La verità è che la gente non conosce il vero ruolo della caccia e non conosce come si caccia in Italia e nel resto d’Europa e nel mondo, ed aggiungo, che non è vero che la maggioranza degli italiani è contraria, lo ha dimostrato anche il recente sondaggio dell’Astra Ricerche che ci conferma quello da sempre sospettato e cioè che il 55% degli italiani non è contrario alla caccia, ma la maggioranza di chi non è cacciatore non la conosce. Ecco che il ruolo del mondo venatorio associativo che doveva da sempre investire risorse economiche in questo: investire in informazione, cultura e riqualificazione professionale e di immagine del cacciatore e dell’attività venatoria stessa, investire in interventi di tutela e riqualificazione ambientale ai fini dell’incremento della biodiversità,  investire direttamente nella ricerca e nello studio delle specie faunistiche oggetto di prelievo venatorio ai fini di una corretta gestione delle stesse.

L’ attività venatoria oggi non può più essere esercitata senza una profonda conoscenza naturalistica del cacciatore, come non può essere esercitata senza che il prelievo di qualsiasi specie non sia inserito in un concetto generale di conservazione e  di protezione. Prelievo praticabile solo sulla base di precisi elementi conoscitivi dello status e della dinamica delle popolazioni, non solo a livello locale ma più in generale a livello globale della popolazione stessa. L’attività venatoria è ammessa laddove persistono ed interagiscono i concetti di salvaguardia, di mantenimento, di riqualificazione e di miglioramento degli ambienti naturali, in sinergia con dei precisi studi e ricerche scientifiche che saranno poi la base per determinare dei precisi piani di prelievo, prelievi che incideranno  solo sul surplus della popolazione animale interessata. La natura offre risorse rinnovabili e queste risorse sono i frutti da raccogliere senza mai intaccare l’albero. L’attività venatoria non può esistere senza la sinergia del mondo scientifico.

Tranne qualche lodevole iniziativa del mondo associativo venatorio, rimane il fatto che persiste  comunque un vuoto assoluto in particolare proprio nel trasmettere fuori dai nostri confini quei segnali di informazione verso l’opinione pubblica e contestualmente controbattere anche a livello legale ed in modo martellante  ogni attacco strumentale verso la caccia e i cacciatori.

Negli Stati Americani, ma anche da alcuni esempi europei da sempre esistono decine di “scuole di caccia” dove i ragazzi accompagnati dai genitori si avvicinano a questa attività e vengono  formati sotto tutti gli aspetti. Come del resto succede con la pesca ricreativa.
Altro aspetto è l’842 l’articolo del Codice Civile che permette ai cacciatori di esercitare l’attività venatoria nei terreni privati, qualora questi non fossero espressamente vietati. Articolo 842 che alcuni si sono schierati per l’abolizione: politici, vip, giornalisti, uomini di cultura, etc. etc. fino a sfociare ad una proposta di Legge che di fatto modifica la 157/92 sancendo l’abolizione dell’842. Nessuno però è riuscito a controbattere queste proposte che sono formulate a senso unico e dando più volte informazioni errate di come sono realmente le cose nel resto d’Europa e del mondo. In sintesi nei stati europei esistono delle Leggi che regolano il prelievo venatorio e queste oltre al resto delimitano l’arco temporale e le specie oggetto di caccia il tutto recependo le Direttive CEE, detto questo poi nessuno ha mai ricordato a questi signori, che nel resto d’Europa la fauna selvatica è di proprietà del proprietario terriero ed è colui che trae anche reddito dalla vendita/concessione sui prelievi della selvaggina stanziale e migratoria ed il cacciatore in sinergia fruisce e gestisce. Quindi in Europa in linea generale la fauna non è proprietà indisponibile dello Stato come è invece in Italia, quindi una proposta di abolizione dell’842 dovrebbe essere formulata recependo l’Europa e non formularla all’italiana e cioè recepire quello che fa comodo ed escludere quello che non piace. I contrari alla caccia, nei media, sul web, sui giornali, etc. anche in programmi televisivi si sono riempiti la bocca nel rispetto delle Direttive CEE ed enfatizzando questo rispetto parlando a sproposito di caccia nei parchi, caccia per i minori, caccia di notte, caccia a specie protette, etc. etc.  il tutto dando una informazione errata di come stanno veramente le cose. Di fatto in Europa (ma aggiungo in tutto il mondo) si caccia anche nei parchi, ne prendo solo due ad esempio per ovvi motivi di spazio: il Parco  Regionale delle Camargue, tra l’altro SIC-ZPS – Zona Ramsar, ebbene qui dentro il parco la caccia agli uccelli acquatici è fonte importante di reddito degli agricoltori/proprietari terrieri e tradizione; il Parco Regionale del Delta dell’Ebro – SIC-ZPS, etc. anche qui la caccia è anche fonte di reddito e tradizione. Che dire della caccia ai minori, in Europa è permesso ovunque dai 14 ai 16 anni, per non parlare della caccia di notte anche questo è permesso in alcuni Stati, e che dire di alcune specie cacciabili in Europa che da noi sono protette da decenni, e della caccia da natante in movimento  in tutta Europa è permesso, per non parlare poi del controllo delle specie alloctone, opportuniste, invasive che creano problemi sanitari, agricoli e danni alla biodiversità, senza mezzi termini in ottemperanza ai dettami europei si eseguono i controlli e prelievi. In Italia il controllo ed il prelievo alle varie specie opportuniste lo si fa ma quasi sempre con mille intoppi, difficoltà e ricorsi vari. Tutto questo sopra elencato è permesso dalle Direttive CEE, questo per dire che se l’Italia è in Europa e che Europa sia allora.

Arriviamo ora agli eventi siccitosi che l’Italia sta affrontando in questi ultimi mesi, tra l’altro eventi che ad oggi si possono dichiarare chiusi per l’arrivo di perturbazioni che portano pioggia e temporali.
In questi mesi  si sono susseguiti sui media  comunicati e articoli allarmanti sulla fauna ridotta allo stremo delle forze a causa della siccità (quanta gente ha visto le varie specie animali vagare allo stremo delle forze, quindi trascinandosi cercando un goccio d’acqua per sopravvivere!!!!!?????). Si sono accusati anche i cacciatori di appiccare incendi per poi abbattere meglio gli animali che scappano dalle aree incendiate. Contro queste cose in questi mesi non c’è stata nessuna replica da parte di chi dovrebbe tutelare la caccia e i cacciatori, a parte qualche isolato tentativo. Bastava ricordare semplicemente a chi con facile ed anche ridicole, ma comunque estremamente offensive strumentalizzazioni: che i cacciatori (nelle varie associazioni di appartenenza) sono da sempre impegnati nella lotta agli incendi e prevenzione con lavoro volontario fattivo sul campo; che il cacciatore non va a caccia dove l’ambiente è alterato o distrutto totalmente, per il semplice fatto che dove non esiste ambiente la fauna non c’è; che da sempre le normative vietano la caccia nelle aree incendiate.
Bisognerebbe ricordare che la primavera/estate di questo anno non interessata da forti piogge  ha permesso senza problemi la nidificazione ed il successo riproduttivo di molte specie di uccelli cacciabili e protetti. Bisognerebbe ricordare che gli uccelli non sono come gli abitanti delle grandi città dove se l’Ente chiude i rubinetti dell’acqua, i cittadini cominciano a dare i numeri. Gli animali e gli uccelli sanno da sempre dove e come trovare l’acqua ed hanno le capacità fisiche ed istintive per poter tranquillamente sopperire ad un periodo temporaneo di siccità che non vuol dire canali, fossi, fiumi, stagni, paludi e laghi svuotati totalmente di acqua.
Si rimane veramente sconcertati da frasi che coniate ad arte per colpire la sensibilità di un’opinione pubblica, per arrivare allo scopo di combattere la caccia e i cacciatori:……..gli uccelli ridotti allo stremo delle forze…….etc. etc.

Sarebbe interessante conoscere con dati tecnici/scientifici alla mano, quanti uccelli morti sono stati trovati nelle campagne, boschi, montagne e paludi, morti per mancanza d’acqua e cioè per non aver potuto abbeverarsi/disidratati. Oppure i dati di quanti pulli e cioè nidiate sono andate perse per mancanza d’acqua. Oppure quanti mammiferi sono stati trovati morti, uccisi dalla impossibilità di abbeverarsi, o quante cucciolate perse e quindi morte per mancanza d’acqua.

Non entriamo nei meriti puramente biologici/fisiologici di ogni specie animale, perché se lo facessimo andremmo a scoprire che moltissime specie animali non specializzati a vivere in ambiente deserticolo, sopravvivono lo stesso con carenza di acqua, assimilando i liquidi necessari direttamente dalle fonti trofiche come altri animali o vegetali.

L’ALLEVAMENTO IN CATTIVITA’ PATRIMONIO GENETICO INSOSTITUIBILE
PER LA CONSERVAZIONE DELLE SPECIE SELVATICHE E DOMESTICHE

di Stefano De Vita

Ho voluto fare questo articolo dopo avere letto la presa di posizione della LIPU in riferimento alla raccolta di firme per l’abolizione dell’uso dei richiami vivi sia di cattura che provenienti d’allevamento. Come già si sapeva le indicazioni dall’Europa ci porteranno progressivamente all’abolizione dei soggetti di cattura per arrivare all’utilizzo dei soli soggetti provenienti d’allevamento e cioè nati in ambiente captivo. Che qualcuno non me ne voglia, ma al giorno d’oggi dove ormai le tecniche d’allevamento e le tecniche d’alimentazione hanno portato a livelli talmente alti in termini di successi riproduttivi non ha più senso utilizzare uccelli di cattura, per una serie di motivi che chiaramente non sto ad elencare per ovvi motivi di spazio.

L‘allevamento in cattività delle specie selvatiche è da sempre praticato dall’uomo, questo è stato sempre affascinato dagli animali che come ha potuto li ha catturati e tenuti accanto a lui, infatti ha iniziato da tempi immemorabili la domesticazione di alcune specie di animali, tutt’oggi insostituibili per la vita di noi stessi. L’uomo ha iniziato con il lupo ed altri canidi selvatici oggi estinti per allevare e selezionare le innumerevoli razze canine arrivate fino ai giorni nostri. Dal coniglio selvatico abbiamo selezionato tutte le razze di coniglio da carne e quelle ornamentali. Dal piccione selvatico sono state selezionate tantissime razze tra cui il piccione viaggiatore. Dal gallo bankiva originario dell’Asia specie ancora vivente da cui derivano tutte le razze di galline domestiche oggi esistenti al mondo. Dai cinghiali ed altri suidi selvatici siamo arrivati ai maiali domestici e ancora il cavallo che è stato il mezzo di locomozione più straordinario che l’uomo abbia mai avuto. Per non parlare delle pecore, delle capre, dei buoi, di anatre, oche, dove l’uomo in migliaia di anni ha selezionato innumerevoli razze. Che dire poi del canarino selvatico, anche qui da questo ceppo selvatico si è arrivati a innumerevoli razze di canarini divisi in varietà come i canarini di forma e posizione, i canarini da canto ed i canarini di colore. L’uomo di tutti questi animali ne ha tratto vantaggio dai molteplici usi che ne ha fatto: per nutrirsene, per difendersi, per coprirsi dal freddo, per fare utensili, per aiuto nella caccia, per locomozione, per comunicare e per goderne la vicinanza per un suo piacere estetico ed interiore.

Oggi si continua ad allevare tutto e sempre per gli stessi scopi citati poc’anzi, ma uno forse è più importante perché poi è quello che serve per la continuità delle specie: allevare ai fini della conservazione. Nel mondo esistono tante specie animali allevate e riprodotte in cattività quante quasi ce ne sono in natura. Esiste un patrimonio genetico insostituibile, portato avanti anche da privati spinti dal grande amore per gli animali e con grande sforzo economico, il più delle volte non visti di buon occhio, travisati da una falsa e tendenziosa informazione portata avanti da un certo ambientalismo-animalismo, che vuole vedere solo l’aspetto del povero uccellino in gabbia, sbandierando troppe volte il maltrattamento animali. Certo, sono consapevole che esiste qualcuno che non tiene gli animali come si dovrebbe, ma non per questo bisogna criminalizzare una categoria ed una sana attività nel rispetto delle normative, dell’etica e del benessere animale.

E’ risaputo e supportato da infiniti lavori, studi e ricerche provenienti da Organizzazioni Conservazionistiche di tutto il mondo che nell’era distruttiva e consumistica in cui viviamo oltre alla difesa primaria degli habitat, uno dei rimedi, se non in alcuni casi il più importante per la salvaguardia delle specie faunistiche  è l’allevamento e la riproduzione in cattività. In alcuni paesi questo è anche incentivato. Nello stesso tempo anche le Normative Internazionali, Comunitarie e Nazionali non lo vietano, al contrario lo prevedono e lo regolamentano:
Convenzione di Washington e successive modifiche e Leggi;
Direttiva Uccelli CEE 79/409 e recenti modifiche 2009/147/CEE concernente la Conservazione degli uccelli selvatici – art. 9;
Direttiva Habitat CEE 92/43 relativa alla Conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatica – art. 14, art. 16;
Convenzione di Berna del 19/09/1979 e resa  esecutiva con Legge 503/1981 Convenzione  relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente in Europa – art. 7 comma 3, lettera c – art. 9 comma 1 – art. 11 comma 2, lettera a;
Convenzione di Parigi del 18/10/1950 e resa esecutiva con Legge 812/1978 Convenzione internazionale per la protezione degli uccelli – art. 4, art. 9;
Legge Quadro 157/1992 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio” art. 17 comma 1 – Allevamenti di fauna selvatica indigena per fini  amatoriali ed ornamentali.
Quest’ultima Legge ha recepito integralmente le Direttive CEE e le Convenzioni Internazionali in materia di  allevamento in cattività di fauna selvatica. Ma abbiamo anche un Primo Documento Orientativo dell’allora INFS ora ISPRA Vol. 1 sulla Legge 157/92 Indicazioni per gli allevamenti di fauna selvatica indigena per fini amatoriali ed ornamentali.

Va anche ricordato che la Direttiva Uccelli CEE 79/409 e successive modifiche – nello specifico: l’art. 9 paragrafo 1 lettera c, cita; per consentire in condizioni rigidamente controllate ed in modo selettivo la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità. Questo ci conferma che questa deroga non nasce per esigenze di carattere prettamente venatorio, anzi al contrario in primis parrebbe per altri interessi quali appunto l’allevamento e riproduzione in cattività e quindi un possibile prelievo in natura per rifornire gli allevatori amatoriali. (tratto da: Raccolta delle Norme Nazionali e Internazionali per la Conservazione della Fauna e degli Habitat - di Mario Spagnesi e Liliana Zambotti – Ministero dell’Ambiente “Servizio Conservazione della Natura” e Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica INFS -  Quaderni della Conservazione della Natura n.1 – anno 2001).

Un’ allevamento organizzato e gestito da persona competente è una fonte di studio e  di ricerca continua, difficilmente osservabile in natura: biologia ed etologia delle specie riprodotte, corteggiamento, canto, tempi riproduttivi, misure e colore delle uova, tempo di schiusa e accrescimento dei pulli, cure parentali, alimentazione e muta, nonché altri aspetti comportamentali. Chiaramente allevando con certi parametri strutturali finalizzati al benessere animale, ma così non potrebbe essere se si vogliono raggiungere dei successi riproduttivi.

Le finalità dell’allevamento e riproduzione in cattività sono anche didattica, educazione ambientale e protezione. Si possono organizzare dei corsi di specializzazione per allevatori, per esempio sulle tecniche di alimentazione, come costruire una voliera, come posizionarla, cassette nido e dimensioni, come posizionarle secondo i punti cardinali, il sole e l’altezza, specie vegetali preferite per la costruzione dei nidi, piante più idonee per naturalizzare una voliera, le piante da bacche, la loro messa a dimora, costruzione di stagni e laghetti per allevamento e riproduzione delle anatre selvatiche con particolare riferimento alla vegetazione palustre. La biologia delle specie che si intendono allevare, etc. Nonché visite guidate negli allevamenti per avvicinare i giovani a conoscere meglio questa “arte” e comprendere il vero ruolo svolto dagli allevatori per il mantenimento, selezione e conservazione dell’avifauna selvatica. Da non confondere con chi cattura e commercia uccelli illegalmente, in pratica il bracconaggio.

Enti ed Istituti scientifici, ma anche associazioni ambientaliste di concerto con gli allevatori che dispongono della “materia prima” potrebbero intraprendere progetti finalizzati alla reintroduzione ed al ripopolamento di particolari specie. Alcuni allevatori possono mettere a disposizione delle Amministrazioni competenti, le loro strutture e la loro esperienza: per la raccolta e riabilitazione di uccelli debilitati, feriti, o pulli abbandonati dai genitori, o caduti dai nidi. Gli allevatori si possono mettere a disposizione delle Autorità Giudiziarie per gli affidamenti di animali sequestrati per vari motivi.
L’allevamento in cattività è sinonimo di protezione: si eviterebbero le catture illegali con  mezzi tipo reti, panie, gabbie trappole, etc. e quindi non ci sarebbe più un mercato nero di uccelli, per il semplice fatto che non ci sarebbe più richiesta, dal momento che si riproducono in cattività ed alla luce del sole, cioè autorizzati. Gli appassionati ornitofili ed anche i cacciatori saprebbero da chi rifornirsi. A nessuno conviene prendere un uccello di cattura, sia per l’inutilità nella riproduzione (almeno non in tempi brevi) e sia per le sanzioni amministrative e penali a cui si va incontro. Il bracconaggio avrebbe un effettivo crollo.

Molti animalisti e ambientalisti pensano e sentenziano a sproposito che gli animali in cattività soffrono. Non è vero e lo riprova il fatto che in condizioni ottimali (ambiente/alloggio/alimentazione idonea alla specie), un animale psicologicamente e fisicamente sano assolve perfettamente tutte le sue funzioni biologiche e la riproduzione ne è la prova più lampante. Un animale lavora di istinto e si riproduce solo se sta in ottimo stato sia fisicamente che psicologicamente, un uomo e una donna chiusi in una gabbia possono tranquillamente accoppiarsi, anche in condizioni di estremo stress, perché è il ragionamento che gli dice di accoppiarsi, agli animali sono i ritmi biologici e l’ambiente circostante che gli dicono come e quando accoppiarsi. Quindi un animale nato in cattività è un animale sano sotto tutti i punti di vista e non certo un animale stressato o maltrattato, quest’ultimo  non sarà mai in grado di riprodursi.

Visto quanto sopra esposto, che in nessun paese comunitario ed internazionale è fatto divieto di detenere ed allevare in cattività specie di uccelli appartenenti alla fauna selvatica, perché mai ci deve essere sempre qualche proclama o azione discriminatoria contro l’allevamento in cattività di specie selvatiche. Non ci dobbiamo stupire però di questo anche perché ormai da certi fronti animalisti anche l’allevamento delle specie domestiche non è visto di buon occhio.

In ultimo per rispondere direttamente al Dott. Danilo Selvaggi della LIPU:  perché vietare l’utilizzo dei richiami vivi di allevamento nell’attività venatoria, che nella fattispecie non si limita solo ai tordi, merli, allodole, pavoncelle, ma comprende anche i colombacci e piccioni domestici per la caccia al colombaccio, le anatre germanate ma anche fischioni, alzavole, etc. di allevamento per la caccia agli acquatici.
Non si accettano lezioni sotto il profilo del buon senso comune e della cultura civile e tutto questo è tanto meno illegale a livello comunitario ed a livello nazionale.
Diciamo invece che per qualcuno forse l’obiettivo primario è solo combattere la caccia e lo si fa con qualsiasi mezzo a disposizione. Per il volere di una minoranza di ideologia animalista con un colpo di spugna si verrebbero a cancellare millenni di lavoro dell’uomo che da sempre ha scelto volutamente di vivere a contatto con gli animali e da questi fruirne in tutte le sue forme. In pratica tutto un comparto carico di storia, cultura e tradizione, che non va perduto se fatto nel rispetto delle norme, dell’etica e del benessere animale.

RIPOPOLARE O REINTRODURRE NON E’ UN’OPERAZIONE ANTIECOLOGICA E NON ARRECA UN DANNO ECOLOGICO.

di Stefano De Vita

Credo fortemente  nei miglioramenti ambientali che sono fondamentali per la nostra biodiversità.  Premesso questo, non disdegno l’idea di allevare acquatici ai fini del ripopolamento e della reintroduzione, non la ritengo una idea antiecologica. Animali selvatici in purezza allevati in ambiente naturalizzato, animali che si riproducono seguendo i propri ritmi biologici, comportamentali, e trofici,  ricordando che sono animali geneticamente puri, perché un codone è un codone  e non viene ibridato con una canapiglia  questo non avrebbe senso. Il concetto di allevamento che intendo non è quello  tradizionale (incubatrice, lampada rossa e mangimi sfarinati con antibiotici), qui non si ibrida per una maggiore produzione di uova o altro, gli animali che possono e devono essere utilizzati per le eventuali immissioni dovrebbero venire da allevamenti estensivi naturalizzati. Gli uccelli acquatici allevati non subiscono la perdita delle abitudini migratorie e della nicchia trofica, devo far notare  che queste anatre allevate in ambiente naturalizzato al momento delle migrazioni hanno un comportamento irrequieto dando segni di nervosismo  (spiccano il volo in modo simultaneo ed in orari precisi del giorno) e che nel periodo della muta quando perdono la capacità del volo con la perdita delle remiganti, le anatre selvatiche (allevate in ambiente naturalizzato) sostano sempre dentro l’acqua e raramente vengono a terra (comportamento che hanno in natura). Per non parlare poi nel modo di costruire il proprio nido secondo la propria specie, costruzione del nido, materiale, posizionamento, numero e colore delle uova, difesa verso i predatori, cure parentali, alimentazione, i pulli di qualsiasi specie acquatica allevata nel modo come descritto,  all’imbrunire  rincorrono le zanzare sul filo dell’acqua per mangiarle, si riempiono il gozzo come in natura e tante altre piccole sfumature che solo l’osservazione continua e sistematica permette una valutazione corretta. Qui non si parla di animali in batteria, ma di animali selvatici – allevati – ma pur sempre selvatici in tutto e per tutto. Quindi un’azione corretta dal punto di vista scientifico, perfettamente ecologica ed in linea con i dettami della conservazione delle specie selvatiche. Un codone allevato e liberato non va a cercare un germano reale dentro un laghetto di città per accoppiarsi, un codone va a cercare un altro codone e ricordo ancora che qualsiasi specie di anatra selvatica allevata se viene immessa, per esempio, nelle paludi di Burano o del Circeo o di qualsiasi altra parte dell’Italia,  trova subito l’alimentazione adatta e il modo di procurarsela, nonché ricerca subito la vicinanza dei conspecifici unendosi a loro.
Qualcuno potrà dire che ripopolare le nostri paludi con dei codoni provenienti da allevamenti, questo sia un piano di volgarizzazione della caccia, io invece al contrario ritengo che oltre alla difesa delle zone umide nonché alle azioni di ripristino di queste, si possano intraprendere dei progetti finalizzati all’allevamento di specie acquatiche che andranno ad arricchire in termini quantitativi quelle specie che sono considerate in declino. Ricordando ancora che organizzazioni conservazionistiche di tutto il mondo concordano con l’affermare che l’allevamento in cattività (effettuato in certi termini) è uno dei rimedi se non il primo per la conservazione delle specie. La priorità è sempre il miglioramento ambientale, questo è indubbio, ma ciò non vuol dire che le due cose non possano essere abbinate.
Vorrei trovare un cacciatore o un ornitologo anche specializzato negli acquatici che sappia riconoscere un fischione, un codone o altro anatide di allevamento da un soggetto selvatico.


In sintesi:

1) Inquinamento genetico è quando due specie diverse si ibridano e allora si hanno geni diversi, ritorno a dire che un Codone (Anas acuta) si accoppia con un Codone  (Anas acuta) e generano delle  Anas acuta  geneticamente pure.  (verifica con esami DNA).
2) Le anatre selvatiche allevate cercano i loro conspecifici in quanto gregari e li seguono non perdendo assolutamente le abitudini migratorie.
3) Le anatre selvatiche allevate mantengono tutti i comportamenti delle stesse che vivono in ambiente naturale: riproduzione, costruzione del nido, cova, cure parentali, difesa dei piccoli, difesa verso i predatori, ricerca e selezione del cibo, etc. etc. Non cambiano assolutamente il comportamento e quindi questo rimane fissato nel patrimonio genetico.
4) Organizzazioni conservazionistiche sostengono l’allevamento in cattività per evitare le estinzioni: programmare, finanziare dei progetti finalizzati alla reintroduzione (vedi Gobbo rugginoso, Pollo sultano, etc. etc.) e queste operazioni hanno dato i loro frutti. A questo punto se hanno dato i loro frutti per specie giustamente protette, perché mai non dovrebbero dare eccellenti risultati  anche per altre specie inserite nei calendari venatori, in particolare quelle che sono considerate in declino?
5) Chi saprebbe  riconoscere un codone allevato da un codone selvatico?

IL LUPO: E’ FORSE DIVENTATO UN PROBLEMA SOCIALE?

Perché questo titolo che magari qualcuno lo ritiene provocatorio e allarmistico, di certo ormai è cronaca di tutti i giorni che non ci sia un attacco di lupi a danno di animali domestici che siano da allevamento in particolare ovini e quindi da reddito, ma anche di affezione in particolare i cani.

Quindi credo proprio che ormai ci troviamo di fronte ad un problema sociale. Non entro assolutamente nella discussione sulla stima delle popolazioni di lupi, oppure sui loro eventuali ibridi, o se ci troviamo di fronte a lupi francesi o appenninici, etc., per questo ci sono i veri professionisti che ci hanno dato le giuste risposte e mi riferisco al Prof. Luigi Boitani dell'Unione Zoologica Italiana che insieme ad altri esperti zoologi su incarico dei ministeri competenti ed in collaborazione con Ispra ma anche con il contributo delle parti sociali interessate, hanno stilato il nuovo piano di azione per la conservazione e gestione del lupo. Ecco che dopo la sua uscita e presentazione di pochi giorni fa, arrivare puntuali e non inaspettate le critiche da tutte le forze animaliste e ambientaliste, solo perché il piano prevede in alcuni casi oculati l’abbattimento di alcuni lupi. Mi sorge spontanea una domanda: perché ci si scandalizza di questo, quando norme ben precise e già ampiamente evidenziate dallo stesso Prof. Boitani, come appunto le stesse direttive comunitarie che gli stessi animalisti e ambientalisti giustamente sbandierano a modello e difesa per altre specie, ma non solo, gli stessi animalisti e ambientalisti che ci ricordano sempre di rispettare tali direttive, insieme ovviamente ai pareri dell’ISPRA. Ecco che come al solito invece quando le norme e la scienza con estrema cautela ed oculatezza prevedono in deroga un possibile prelievo di lupi in questo caso, ma ovviamente il discorso vale per tante altre specie, allora queste norme e questa stessa scienza non vengono accettate e sembrerebbe che sono proprio gli animalisti e ambientalisti a non volerle accettare.

Purtroppo abbiamo visto che quando non si interviene subito i problemi diventano irreversibili ed anche se non si parla di lupi, di esempi ne abbiamo avuti e ne abbiamo ancora con tante specie autoctone ed alloctone, come con lo scoiattolo grigio che quando erano stati individuati per la prima volta e molto localizzati non si è potuto procedere all’eliminazione, il tutto perché bloccati quegli interventi proprio dagli stessi animalisti, è purtroppo quello che è successo per tante specie alloctone dove si poteva e doveva intervenire per eliminare quei competitori con le specie autoctone, di fatto questo è stato sempre ostacolato nonostante le norme previste e nonostante l’autorevole parere della scienza.

Ora ci troviamo di fronte ad un problema diverso ma analogo nell’affrontare (solo per qualcuno) sulla metodologia di interventi. In tutto questo come è solito per le associazioni animaliste e ambientaliste si parla sempre di caccia, ricordo invece che il problema lupo non è certo un problema dei cacciatori e che sono proprio quelli che non dovranno mai intervenire per la loro gestione, in pratica i cacciatori non saranno mai chiamati a premere il grilletto per contenerne i numeri. Saranno altri soggetti eventualmente chiamati a farlo.

Ho avuto modo di apprezzare e condividere il nuovo piano di azione conservazione e gestione del lupo, ma lo ritengo molto complesso e di difficile attuazione forse per i troppi enti interessati e forse i troppi sentito il, sentito il, sentito il, visto il parere del, visto il parere del, visto il parere del, etc, etc, etc, e come molti altri piani di azione o linee guida o altri documenti tecnici di gestione faunistica supportati ovviamente da norme comunitarie, statali, regionali in materia di gestione e controllo, in buona sostanza rimasti solo sulla carta.

Certo che una cosa è sicura, il lupo deve rimanere una specie super protetta, è un arricchimento alla nostra biodiversità, una specie da tutelare e conservare per le generazioni future, ma certamente una specie che sta mettendo in serio pericolo anche molte attività zootecniche di eccellenza. Si parla sempre più spesso di allevamenti intensivi ed allevamenti estensivi, i primi caratterizzati da animali sempre stabulati ed alimentati per lo più con mangimi artificiali, i secondi animali allevati e cresciuti allo stato brado quindi che si alimentano allo stato naturale, ovviamente il tutto a vantaggio della qualità della carne, del latte e dei loro derivati quindi formaggi e latticini vari, ma ben più importante proprio per il benessere dei stessi animali allevati in modo naturale. Quello stesso benessere animale che gli stessi animalisti portano avanti (e che condivido) in tante battaglie e campagne di sensibilizzazione contro gli allevamenti intensivi, e allora? E allora credo che sia ora di far pace con il cervello, anche perché ho sentito più volte dire che alcune soluzioni per difendersi dagli attacchi dei lupi è chiudere e cioè stabulare gli animali, non mandarli al pascolo brado incontrollato. Ma come, ora allevare al chiuso va bene e il benessere animale? Ovviamente per molti allevatori queste sono follie, in primis per i motivi già evidenziati, ma anche per gli enormi costi gestionali nello stabulare gli animali, per non parlare delle mille complicazioni burocratiche come autorizzazioni edilizie, sanitarie, etc. etc. Ma in questo modo il benessere animale non conta più?

Chi alleva ovini allo stato brado in ambienti selvatici come per centinaia di anni è stato fatto ed ancora in parte si fa, gli allevatori hanno usato ed usano tutt’ora i cani da guardia i nostri pastori maremmani abruzzesi che non solo tengono lontani i lupi, ma anche cani ed uomini che non conoscono. Proprio per il fatto che i cani da guardiania di greggi sono cani che hanno caratteristiche spiccate alla protezione del gregge e quindi a renderli ostili con tutti gli intrusi, anche con le persone sconosciute ed ostili anche con gli altri cani che non fanno parte del loro gruppo sociale. Diventa quindi impensabile proporre questi cani in contesti antropizzati, si alimenterebbero tensioni con i vicini e tensioni con i tanti fruitori dell’ambiente che ruotano intorno a questi allevamenti.  Infatti il problema serio e pericoloso è che alcuni lupi si sono insediati in ambienti antropizzati cioè in ambienti dove ci sono insediamenti abitati con annessi animali domestici di affezione come i cani, ma anche equini in genere come cavalli e asini, dove sono presenti anche strutture di allevamento ovino, caprino, etc. quindi tipiche zone collinari, etc., caratterizzate da grandi estensioni boschive, pascoli, incolti, aree agricole, tutto questo frammentato dalla presenza delle attività umane ed insediamenti abitativi. Qui il lupo ha trovato facili prede ed eccellenti coperture difensive, il massimo per un predatore: gli esperti, e la logica naturale ci dicono che esiste per ogni specie animale una zona vocata o non vocata per quella o questa determinata specie, ecco che un territorio più o meno antropizzato non potrà mai essere un’area vocata per il lupo proprio per il conflitto e la pericolosità da lui esercitata verso gli animali da reddito, da cortile e da affezione, ma anche un possibile pericolo per l’uomo stesso. In ogni caso questi lupi in tali contesti arrecano danni. Questi non solo andrebbero immediatamente risarciti, ma i stessi lupi (ed a maggior ragione eventuali loro ibridi) andrebbero eliminati come del resto viene fatto in tutto il mondo quando specie selvatiche entrano in conflitti pericolosi con l’uomo, i propri animali e le proprie attività, invece purtroppo assistiamo ad una immensa burocrazia, tempi biblici nei risarcimenti e finanche irrisori, sempre che questi vengano poi effettuati. Tutto questo provoca amarezza, delusione, sconforto che sfocia in rabbia e scatena purtroppo il gravissimo problema del fai da te, cioè reati di bracconaggio di uccisioni con lacci, veleni, etc., atti ovviamente da condannare e combattere con ogni mezzo. Ma poi vengono spontanee alcune riflessioni dopo aver visto un report della trasmissione televisiva delle Iene sul canale Mediaset Italia 1, dal titolo “Quando il lupo diventa una minaccia” e dove vediamo e sentiamo le riflessioni di una esperta che manifesta giustamente lo sdegno di tali azioni di bracconaggio verso un lupo morto da bocconi avvelenati: ma per caso qualcuno non pensa invece che quel povero cagnolino nero che si vede nel video viveva sereno e beato con la propria famiglia di umani e che magari era la felicità di un bambino, lui il cagnolino ci ha provato a scacciare il lupo entrato nella proprietà abitativa, ma quel lupo lo ha preso per il collo e se lo è portato via per mangiarselo; e che pensano di quel povero asinello sbranato, animale tanto caro per qualcuno che tutti i giorni lo accudiva amorevolmente. Questi erano animali d’affezione che vivevano in contesti abitati, ma di esempi ne potremmo citare ancora, come il labrador sbranato sempre dentro la proprietà di una villetta, ma anche i tanti cavalli all’interno di proprietà, non contiamo poi le predazioni (come appunto ci ricorda il report di cui sopra) a danno dei piccoli allevamenti amatoriali di ovini e caprini. Ma per questi animali nessuno prova un sentimento di sdegno per delle uccisioni che non dovrebbero esserci, in particolare in questi contesti. Ma quelle non sono povere bestiole?

Le soluzioni? Non credo che si arriverà ad una soluzione, in questa materia la storia ci insegna. Però è ora che quel qualcuno che si ostina ad osteggiare la corretta gestione e controllo di alcune specie problematiche, il tutto supportato dalle leggi e dalla scienza e quindi dai piani di azione: ebbene che quel qualcuno allora cominciasse a prendersi le proprie responsabilità e pagare loro con i propri soldi i danni arrecati e sempre quel qualcuno a proprie spese cercare di risolvere il problema. Come tutti i piani di gestione e controllo alla fine devono però darci il resoconto e cioè la risoluzione del problema.

Testo di Stefano De Vita